Morte dei campioni: quando le frasi retoriche sono insopportabili (ma si salva Possamai…)
di Alessandro Cammarano
I defunti illustri sono da sempre soggetto di commemorazione; uno per tutti il Napoleone Bonaparte – il primo, quello vero, non il nipotino cafone che fu comunque imperatore – celebrato da Manzoni nell’ode” Il cinque maggio“ il cui principio sanno più o meno tutti a memoria.
In quell’”Ei fu” che si sviluppa nel racconto delle gesta del Petit Caporal è racchiuso un misto di ammirazione unito al rimprovero della ricerca della gloria terrena, eppure il poeta non scade mai nella retorica pur di fatto dando un giudizio.
“Facile” – potrebbero obbiettare i lettori – “lui è Manzoni, mica Pinco Pallino!”: d’accordo, un giusto compromesso tra l’autore dei Promessi sposi e la vomitevole retorica che i “potenti” affidano ai loro uffici stampa, ricchi di laureati in Scienze della Comunicazione, quando si tratta di ricordare un trapassato famoso lo si potrebbe pure trovare.
Esempi eclatanti vengono dalla recente scomparsa di due assi del pallone, Diego Armando Maradona e Paolo Rossi; figure antitetiche tra di loro, divisivo il primo, capace di unire il secondo ma comunque egualmente protagonisti di una stagione sportiva che trova pochi uguali.
Si è letto di tutto, da “Ciao Diego, adesso corri per i campi del cielo” o “La mano de Dios da oggi fa gol con i cherubini” al tributo che Luca Zaia – o il suo team – hanno riservato al calciatore toscano di nascita e vicentino d’adozione che se n’è andato in punta di piedi nelle scorse ore.
Bene, il Presidentissimo così scrive: “Adios Pablito. Ha dribblato tutti per andare a giocare lassù”; semplicemente agghiacciante anche dal punto di vista strettamente lessicale.
La familiarità finta e unticcia di quell’”Adios Pablito” provoca un primo conato, seguito da un secondo causato dal “per andare a giocare lassù”. “Lassù” dove? Al piano di sopra? Ad Asiago? Boh!
Si sono lette cose terrificanti anche per la morte – chiamiamola con il suo nome; non “scomparsa” per cortesia – di Gigi Proietti che tutti avevano incontrato e conosciuto intimamente e che a prova delle loro frequentazioni hanno esibito improbabili fotografie in sua compagnia condite da frasi del tipo “Adesso farai ridere gli angeli” o “Nessuno era più grande di te”; affermazioni valide fino alla dipartita del prossimo vip al quale andrà logicamente l’ennesimo “Eri immenso! Chi come te?”.
La corsa alla retorica da baretto viene logicamente amplificata dai social dove tutto si involgarisce; e allora via alla lunga fila dei R.I.P., dei “Niente sarà più come prima” e compagnia cantante sempre sul filo della banalità.
Il presidente della Lega di serie A, ricordando Paolo Rossi; ha detto “ci ha fatto sentire orgogliosi di essere italiani, è stato l’eroe di tutti noi. La Serie A piange un immortale del nostro calcio, amato dal mondo intero”; a che pro queste iperboli? A chi giova l’eccesso? Certo non al ricordo dello schivo campione, ricordato oggi dalla moglie con parole di meravigliosa misura che dovrebbero servire da lezione a chi crede di “distinguersi” – già, perché spesso ricordando il morto è invece il vivo ad autoincensarsi – e invece scade al livello più basso della comunicazione.
Questi “ricordi” non sono così diversi dal “Buongiornissimo, caffè!” che infesta le nostre mattine, il problema è che attingono alla più intima ed estrema delle sfere.
In mezzo a tanta tristezza spunta inaspettato un piccolo capolavoro di delicatezza ad opera di Giacomo Possamai, vicentino, che così scrive su Facebook: “Ha reso un marchio inconfondibile il nome e il cognome più comuni. Basta questo per capire chi è stato Paolo Rossi. Per l’Italia è un giorno triste, per Vicenza di più.”, non credo ci sia da aggiungere altro.