L’Afghanistan delle donne bottino di guerra
Almeno il Presidente Joe Biden ci ha risparmiato la trita retorica secondo cui gli interventi militari l’Occidente li fa per “portare la democrazia”, e ha detto, papale papale, che “No, gli Usa non sono andati in Afghanistan per creare una nazione, bensì solo per uccidere Osama bin Laden e demolire Al Queda, evitando così altri attacchi terroristici all’America”.
Dimenticando però che per raggiungere questi obiettivi le Forze Nato, con l’Italia ben rappresentata, in Afghanistan ci sono state 20 anni.
Vent’anni, e quattro Presidenti americani, per assistere alla fine impotenti alla proclamazione dell’ ”Emirato islamico” a Kabul!
Chissà perché questa proclamazione mi ricorda un’altra analoga, quella del Califfato correlato allo Stato islamico dell’Isis, che venne abbattuto dopo una guerra sanguinosissima?
E chissà perché le scene che le Televisioni ci hanno mostrato dall’aeroporto di Kabul, con migliaia di afgani a rincorrere disperati a piedi gli aerei in partenza, forse meglio dire in fuga, pieni di “occidentali”, mi ricordano quella famosa foto che mostrava una fila di persone che cercavano di salire su un elicottero precariamente appoggiato sul tetto di un edificio di Saigon, il giorno prima della fine della guerra del Vietnam?
Certo se si guardano gli eventi con il cinismo della realpolitik diventano plausibili le argomentazioni di Joe Biden (ma non va dimenticato che il ritiro è stato deciso dal suo predecessore Donald Trump), secondo cui non si poteva mantenere all’infinito la presenza di forze straniere in Afghanistan, ma non si può negare il fallimento dell’intelligence, che ha sottovalutato i talebani e sovrastimato le capacità dell’esercito afgano, rivelatosi alla prova dei fatti mal addestrato, demotivato, e incapace di opporsi agli studenti islamici in motocicletta.
Ma a Biden mi piacerebbe ricordare che la storia è fatta da uomini e da donne, ed in Afghanistan la missione Nato aveva acceso la speranza di un mondo migliore.
Soprattutto nelle donne si era diffusa l’aspettativa di ottenere quelle libertà che gli estremisti islamici avevano loro negato per decenni.
Donne e ragazze che in questi 20 anni hanno visto l’istituzione di oltre 3.000 centri sanitari a loro riservati, la diminuzione del 40% della mortalità femminile, il deciso aumento del numero delle ragazze presenti nelle scuole superiori, le 100mila donne iscritte all’Università, l’estensione del diritto di voto, l’accesso a cariche politiche, giurisdizionali, ed a professioni compresa quella giornalistica.
A tutte queste donne è come se Biden avesse detto: scusate tanto, avete capito male! A noi interessava solo difenderci dal terrorismo, non ci importa se il ritorno dei talebani al potere equivale all’evacuazione dei diritti umani.
Certo per le nostre coscienze di occidentali forse potranno essere consolatorie le parole di chi ventila la possibilità che i talebani in questi 20 anni siano cambiati.
In questa fase transitoria i nuovi padroni dell’Afghanistan cercano la luna di miele con la comunità internazionale, sanno che il mondo intero li sta guardando, hanno imparato a vendersi bene, vogliono il riconoscimento degli Stati, e quindi si lanciano in conferenze stampa piene di rassicurazioni secondo cui alle donne afgane non verrà fatto alcun male, garantendo addirittura che non verrà loro imposto il burqa, bensì solo l’hijab.
Ma quello che è successo a Balkh, piccolo distretto del nord del Paese, sicuramente non rassicura.
Già, perché dopo la riconquista talebana, avvenuta un mese fa, a Balkh i mujaheddin hanno distribuito alcuni volantini per invitare i cittadini a tornare a seguire le stesse regole abbandonate nel 2001; quelle che vietano alle donne di uscire di casa se non accompagnate da un parente maschio, che bandiscono le ragazze dalle scuole, che elimina per loro il diritto al lavoro e alle cure mediche, che rendono obbligatorio il burqa, che prevedono la fustigazione per coloro che osano mostrare le caviglie scoperte, che legittimano la morte per lapidazione per qualsiasi donna scoperta a praticare sesso fuori dal matrimonio.
E The Guardian ha raccontato che i capi talebani hanno chiesto agli Imam delle aree conquistate di fornire loro l’elenco delle donne “non sposate in età compresa fra i 12 ed i 45 anni”, per farle sposare con i loro soldati in quanto “qhanimat” (bottino di guerra) per i vincitori.
Pensate che esagerino le donne afgane ad essere preoccupate per il loro futuro, che comunque la si veda sarà in mano a uomini che in base alla loro rigida interpretazione della legge coranica si sentono autorizzati a trattarle come “kaniz” (merce)?
Pensate che sbaglino a non fidarsi delle dichiarazioni dei talebani che dicono che le donne potranno partecipare anche alla vita politica, però secondo la sharia, senza spiegare bene cosa voglia dire?
La verità è che quando si spegneranno i riflettori e le telecamere, quando noi occidentali ripiomberemo nel nostro tran tran, le donne afgane potranno tornare ad essere il bersaglio dei talebani.
In particolare quelle che hanno studiato, che sono abituate a pensare, come le giornaliste, le avvocatesse, le attiviste.
Francamente mi viene da sorridere quando leggo in questi giorni tutti gli appelli per l’apertura dei “mitici” corridoi umanitari.
Certo è bene che li si faccia, se possibile, ma salvare anche qualche decina di migliaia di afgani, e di afgane, può servire solo a mettere in pace le nostre coscienze, perché è semplicemente impensabile dare rifugio in occidente a 14/15milioni di donne.
Il problema è che, a mio avviso, non si parla a sufficienza delle motivazioni che portano le donne afgane ad avere paura del futuro.
Ed non è difficile capire il perché.
Perché parlarne significherebbe mettere sotto i riflettori il problema del rapporto fra l’Islam ed i diritti delle donne, che è problematico non solo nelle terre afgane, e coinvolge molti altri Paesi con i quali, per motivi strategici o economici, l’Occidente mantiene stretti rapporti di alleanza.
Perché significherebbe parlare anche di lapidazioni, di infibulazioni, di matrimoni combinati ed imposti, di velo, burka e quant’altro.
Le donne occidentali potrebbero però fare sentire la loro voce, la loro indignazione, influenzando i propri governanti, facendo loro capire chiaramente che ad esempio il regime talebano potrà essere riconosciuto solo dopo aver verificato veramente e nel tempo il rispetto dei diritti femminili.
Ed in prospettiva ciò potrebbe valere anche per molti altri regimi che fanno strame dei diritti dell’ “altra metà del cielo”.
Ma non ci spero troppo, visto che Josep Borrell, Alto Rappresentante della Ue per gli affari esteri e la sicurezza ha già dichiarato che bisogna che l’Europa si metta in contatto con i talebani che “hanno vinto la guerra”, per parlarci, per discutere, ed evitare così un disastro migratorio, ed il ritorno del terrorismo.
Mosca e Pechino con una buona dose di cinismo lo hanno già fatto.
E i diritti delle donne mister Borrel?
No problem!
Se non è realpolitik questa!