3 Ottobre 2022 - 12.11

PILLOLA DI ECONOMIA- Gas ,calvario per alcuni, Eldorado per altri

Non c’è da stupirsi se di questi tempi l’argomento più trattato su giornali e media sia il prezzo del gas, e quindi dell’energia.

Il gas rappresenta quasi una sorta di “alfa ed omega” dell’odierna congiuntura, e quello degli approvvigionamenti alternativi per fare fronte al blocco delle esportazioni deliberato da Putin rappresenta il “problema dei problemi” per quasi tutti i Paesi europei.

Ho detto “quasi tutti” non a caso, perché la crisi del gas, che per buona parte dei Paesi fra cui  l’Italia è un calvario, per altri Stati si è trasformata invece in un Eldorado, un’occasione di business irripetibile, che genera fiumi di denaro, e che continuerà a farlo anche negli anni a venire.

Ma vediamo quali sono questi Paesi “baciati” dalla crisi del gas russo.

Cominciamo con gli Stati Uniti  che stanno fornendo  al Vecchio Continente una notevole quantità di gas liquefatto. Tanto per dare un’idea, dei 57 miliardi di metri cubi esportati dagli Usa fino a giugno 2022, ben 39 sono stati destinati all’Europa (principali acquirenti Francia, Spagna e Regno Unito). Ovviamente a prezzo pieno, con grande gioia, e incassi miliardari, degli esportatori americani.

C’è poi la Cina (di cui vi ho parlato lo scorso 1° settembre in una Pillola di Economia dal titolo: La farsa del gas russo “made in China”), che data l’attuale debolezza della domanda interna, può permettersi di esportare in Europa il gas che le avanza (ed è comunque tanto visto che Pechino è il principale importatore al mondo).  Anche in questo caso un fiume di denaro che dalla Ue prende la strada della Repubblica Popolare Cinese, sostenendone l’economia.

Arrivando dalle nostre parti, fra i Paesi che si avvantaggiano dell’attuale situazione c’è sicuramente l’Olanda, che grazie all’impatto positivo del Ttf di Amsterdam, mercato di riferimento europeo per il prezzo del gas, ha raddoppiato il suo surplus commerciale nel primo e secondo trimestre del 2022.

E arriviamo quindi alla Norvegia, che a mio avviso rappresenta un “caso nel caso”.

Giova partire dal fatto che il paese nordico, grazie ai giacimenti nel Mare del Nord, rappresenta il maggior produttore di idrocarburi dell’Europa occidentale.

E’ evidente che in questa congiuntura chiunque abbia gas da vendere non ha che da incassare.

E tanto per dare le dimensioni del fenomeno, secondo i dati ufficiali dell’Istituto Statistico Norvegese,  nei primi otto mesi dell’anno le esportazioni di gas hanno toccato il valore di 775 miliardi di corone norvegesi, pari a circa 77 miliardi di euro, ossia il 315 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Ad agosto le esportazioni di gas hanno raggiunto il massimo di sempre: 176 miliardi di corone norvegesi, ossia 17 miliardi di euro, quasi il 40 per cento in più rispetto al mese prima, e il 360 per cento in più rispetto ad agosto 2021.

Se questo non un Eldorado per un Paese di soli 5 milioni anime, allora ditemi cos’è l’Eldorado.

Ma la Norvegia non solo ha aumentato le vendite, ma ha beneficiato dei prezzi eccezionalmente alti del metano, fissati ad Amsterdam.   Sempre relativamente ai dati di agosto, i suoi incassi sono stati più di quattro volte superiori rispetto al 2021, a fronte di volumi di vendita cresciuti solo del 12,8 per cento. Il governo norvegese ha previsto che le entrate dello stato derivanti da  petrolio e gas toccheranno quest’anno i 100 miliardi di euro.

Come meravigliarsi se, dati gli incassi decuplicati, il Governo norvegese preveda di mantenere gli attuali livelli di produzione di gas fino al 2030!

Per di più questa dinamica di mercato accentua un paradosso che ormai esiste da anni, e cioè che la Norvegia si sta arricchendo con le esportazioni di fonti fossili, mentre è uno tra i paesi più all’avanguardia in termini di rinnovabili ed elettrificazione.

Ma a questo punto sono inevitabili alcune riflessioni politiche.

Partendo dalla considerazione che la governance dell’Europa, per come è fatta, purtroppo non funziona come dovrebbe, e in situazioni  drammatiche come quelle di oggi, si continua ad affrontare tutto con lentezza, senza visione complessiva, e quindi non ci si può stupire se gli Stati seguano vie nazionali per la risoluzione dei problemi.

E francamente non sono del tutto sicuro che l’eventuale fissazione del price cap funzionerebbe, perché lo capisce anche un bambino che il mercato offrirebbe Gnl a chi paga di più, e non a chi paga di meno.  

Il price cap potrebbe funzionare al massimo con i Paesi che esportano via tubo (gasdotto) perché non hanno altre alternative.

Ma allora dov’è che abbiamo sbagliato?

Poiché è in atto una guerra (è inutile nascondersi dietro gli eufemismi, di guerra si tratta, con tanto di minacce nucleari), oltre che a livello Ue, la cui capacità di decisione, come abbiamo visto, è lenta e farraginosa, i Paesi più deboli come il nostro (non la Germania ad esempio che ha risorse per risolvere i problemi da sola) avrebbero dovuto muoversi a livello di tutti i membri della Nato, dando vita ad un patto basato su questa principio “Noi, insieme, diamo una mano all’Ucraina per difendersi, come è giusto che sia, ma nessun paese Nato deve arricchirsi in questa situazione”.

Pensare che in questo contesto bellico possa essere il “Mercato” (tipo il Ttf di Amsterdam) a regolare i rapporti economici e strategici fra Stati è mera utopia, oltre che mancanza di lungimiranza.

Perché a mio avviso il senso vero di un’alleanza come la Nato non può essere limitato alla sola tutela militare, pur necessaria (dopo il recente attentato al Nord Stream2 navi tedesche, francesi e britanniche aiutano la Marina di Oslo a pattugliare le acque attraversate dai gasdotti e gli impianti offshore per l’estrazione di petrolio), ma deve essere esteso anche alla tutela delle nostre economie in tempi di guerra.

Questo nell’immediato vorrebbe dire fare pressioni sulla Norvegia perché si accontenti di un giusto guadagno per il suo gas, rinunciando agli extra-profitti derivanti da un mercato impazzito.

Ma contemporaneamente lo stesso discorso andrebbe fatto anche ad Usa e Canada, per evitare che l’Europa sia l’unico continente a pagare il prezzo della sacrosanta difesa dell’Ucraina.

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