PILLOLA DI ECONOMIA – Quanta recessione serve per domare l’inflazione? Cappio o ghigliottina?
di Umberto Baldo
Quanta recessione serve per domare l’inflazione?
Detta così sembrerebbe una domanda surreale, come chiedere ad un condannato a morte se per tirare le cuoia preferisca il cappio o la ghigliottina.
Invece è proprio questo il dilemma, o se preferite il quesito, che da mesi e mesi sta forse togliendo il sonno ai Governatori delle Banche Centrali, ai Governi, e comunque a tutte le Istituzioni politico-finanziarie.
A scanso equivoci vi dico subito che se alla fine di questo pezzo pensate di trovare un numero, una percentuale, resterete delusi. Io non ho certamente quel dato, perché se l’avessi credo che in questo momento di Nobel per l’Economia me ne darebbero due.
Tornando al tema, gli scenari attuali sono ormai quelli che ci accompagnano da tempo, fatti di prezzi aumentati in maniera significativa in tutto il mondo, di mercato azionario depresso, di rendimenti dei bond in rampa di lancio, e di dollaro pronto ad assestare nuove spallate alle altre valute.
La causa di questo sconquasso è solo una, l’inflazione, quel parametro che misura le variazioni dei prezzi di un insieme di prodotti e servizi rappresentativo del costo medio della vita, e che sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea sta galoppando a tassi che non si vedevano da moltissimi anni, e che sta indebolendo il potere di acquisto delle famiglie.
Tanto per capire l’entità del fenomeno lo scorso agosto l’inflazione nell’area dei Paesi che adottano l’euro (la cosiddetta “Eurozona”) ha registrato un +9,1% su base annua, il tasso più alto da quando esiste l’euro. Analogamente anche negli Usa l’aumento dei prezzi è arrivato all’ 8,5%, mai così alto da 40 anni.
Le due principali Banche centrali, la Fed americana e la Bce europea, stanno cercando di metterci una pezza, però con tempi e modalità diverse, perché i motivi dell’impennata dei prezzi non sono gli stessi negli Usa ed in Europa.
E la medicina ci insegna che se le malattie sono diverse, la stessa cura non può funzionare, perché magari guarisce un paziente, ma uccide l’altro.
Parlo di stessa cura per malattie diverse perché fino a ora sia la Fed che la Bce si sono affidate alla terapia classica anti inflazione, quella dell’aumento dei tassi di interesse, nonostante, come accennato, la malattia (per chiamarla così) abbia cause diverse.
L’economia Usa nel complesso sta marciando bene, e l’inflazione in atto è chiaramente “da domanda”, che, schematizzando al massimo, si realizza quando tante persone vogliono acquistare dei beni o servizi (la cosiddetta domanda), ma non ce ne sono in quantità sufficienti. In questi casi i prezzi aumentano, e verranno soddisfatti solo coloro che sono in grado di pagare di più.
L’inflazione europea è al contrario prevalentemente “da offerta”, che per fare un solo esempio si concretizza a fronte dell’aumento del prezzo delle materie prime necessarie per produrre un bene, ad esempio il petrolio, il gas o l’energia elettrica. In questi casi gli imprenditori, per mantenere invariato il loro profitto a fronte di un aumento dei costi, aumentano i prezzi dei prodotti.
La riprova che nell’area dell’euro ci troviamo di fronte a un’inflazione per lo più da offerta, mentre negli Stati Uniti si tratta ormai di una classica inflazione da domanda ben radicata nell’economia, la si trova monitorando la cosiddetta “inflazione di fondo”, dato che si ottiene togliendo all’inflazione complessiva la componente più volatile dei prezzi (ossia quella legata all’energia e ai beni alimentari, due mercati molto suscettibili a movimenti improvvisi).
Ebbene l’attuale inflazione di fondo nell’Area euro è pari ad un 5% (contro il complessivo rilevato del 9,1%), mentre negli Usa è del 7,2% (a fronte del dato complessivo dell’8,5%).
Confrontando i dati risulta evidente che il costo dell’energia e dei generi alimentari pesa per quasi la metà sul totale dell’inflazione europea, mentre solo per circa un quinto su quella americana.
Arrivando alla “cura”, sulla base della dottrina economica prevalente un’inflazione da domanda si può combattere alzando i tassi di interesse, e ciò al fine di raffreddare l’economia.
Ma questa terapia non è contemplata in caso di inflazione da offerta, perché non è che aumentando i tassi trovo ad esempio più gas o petrolio sul mercato, e si rischia così la recessione.
La politica della Bce dovrebbe quindi essere diversa da quella della Fed, ma è inevitabile che per evitare la corsa al dollaro (l’euro è da tempo sotto la parità con la valuta americana) anche la Banca Centrale Europea continui nella politica di aumento dei tassi ( con la conseguenza del Btp tonato a sfiorare il 4,90%, e lo spread ad un soffio dai 250 punti base).
Christine Lagarde questo l’ha capito, e ci mancherebbe altro, e non a caso ha lanciato un appello a Powell ed alla Fed di questo tenore: “Dobbiamo cooperare fra di noi, banchieri centrali, per capire quali saranno le ricadute, quali le ripercussioni, che impatto abbiamo gli uni sugli altri equali ramificazioni ci saranno. Perché i mercati finanziari sono molto integrati e perché le rispettive politiche monetarie hanno impatto su altri Paesi nel mondo”.
Non credo che le lamentazioni della Lagarde modificheranno la linea rialzista decisa dalla Fed, e così continuerà ad aleggiare senza risposta anche nell’immediato futuro la domanda con cui ho iniziato queste riflessioni: