Assalto al potere – Ieri a Brasilia come nel 2021 a Washington
“Dio li fa e poi li accoppia”. E’ un noto detto popolare che potrebbe essere applicato a Jair Bolsonaro e Donald Trump.
Entrambi hanno governato quattro anni rispettivamente il Brasile e gli Stati Uniti, ed entrambi hanno perso la rielezione alle urne.
Ma le somiglianze non si fermano qui.
Entrambi non hanno riconosciuto la vittoria dell’avversario, Lula de Silva in Brasile e Joe Biden negli Usa, ed entrambi lo hanno plasticamente mostrato non partecipando fisicamente alla cerimonia di insediamento del loro successore.
Quello che è accaduto a Washington il 6 gennaio di due anni fa lo abbiamo ancora tutti davanti agli occhi. Una massa di “fedelissimi di Donald” ha assaltato con la violenza il cuore delle Istituzioni americane, e alcuni dei rivoltosi entrati al Campidoglio sventolavano bandiere confederate, emblemi nazisti, e indossavano indumenti antisommossa come elmetti e giubbotti e tenute militari. Tra loro c’erano adepti di QAnon, oltre alle corna indossate dal rivoltoso che finirà poi su tutte le prime pagine del mondo, Jake Angeli.
Al di là di ogni tipo di lettura quello del 6 gennaio 2021 è stato un vero tentativo di insurrezione, mirante a sovvertire le istituzioni degli Stati Uniti.
Le responsabilità di Donald Trump e dei suoi collaboratori sono state messe in evidenza dalla Commissione Parlamentare di inchiesta, e la Giustizia ha già condannato un migliaio di golpisti: eppure, come dimostra la tormentata elezione dell’altro giorno dello Speaker della Camera, il repubblicano McCarthy, tenuto in ostaggio dai nazionalisti come non capitava da un secolo, l’ombra di quel blitz pesa ancora sulla democrazia Usa.
Ebbene quello che è andato in scena ieri a Brasilia sembra la fotocopia dei fatti di Washington, con i sostenitori di Bolsonaro in maglia gialla, da ultras della Seleçao, che hanno ferito almeno tre cronisti, distrutto telecamere, vandalizzato gli edifici del Congresso e della Corte Suprema, saccheggiato il Palazzo Planalto, residenza del Presidente. Il tutto mentre la polizia, agli ordini dell’ex ministro di Bolsonaro Anderson Torres, stava a guardare o solidarizzava con i rivoltosi, scattando selfie sorridenti sulle barricate.
E tutto questo mentre Bolsonaro è negli Stati Uniti, in Florida, dove ha festeggiato il capodanno con Donald Trump nel buen retiro di Mar a Lago.
Che l’avvicendamento fra Bolsonaro e Lula non sarebbe stato sereno lo si era capito già dal giorno dopo i risultati elettorali, che come nel caso degli Usa hanno certificato una vittoria piuttosto risicata.
Lula ha vinto infatti con il 50,9% dei voti contro il 49,1 di Bolsonaro (due milioni di scarto), ma a dare fuoco alle polveri della protesta ha contribuito non solo l’incapacità di Bolsonaro di accettare la sconfitta, ma anche il veleno di una chiassosa estrema destra che, sia negli Stati Uniti che in Brasile e in altri Paesi, sembra non essere più in grado di accettare le regole del gioco democratico, e di conseguenza cerca con tutti i mezzi, compresa la forza bruta, di impadronirsi del potere.
E’ chiaro che se queste sono le condizioni di partenza non c’è nessuna “democrazia” immune da rischi, perché la democrazia-liberale funziona solo se l’avversario viene considerato appunto solo un avversario “politico”, e non un nemico da abbattere; diversamente si ha, come nel caso del Brasile e degli Usa, una visione del partito rivale e del suo capo come del male assoluto, per far fuori il quale diventa lecito ed accettabile qualsiasi mezzo, compresa la violenza e gli assalti armati ai palazzi del potere.
Non c’è dubbio che ieri a Brasilia è andata in scena un’imitazione dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, ma è il contesto politico che rende la vicenda ben più inquietante.
Infatti mentre la democrazia in Usa ha ormai due secoli di storia, e dal 1787 di crisi istituzionali ne ha viste tante e finora le ha superate indenne, in Brasile la dittatura militare ha ceduto il passo al potere civile solo negli anni fra il 1985 ed il 1988, e la rivolta dei bolsonariani si inserisce in un continente, l’America del Sud, in cui in parecchi Stati, dal Cile al Perù, dalla Colombia all’Argentina, la sindrome del populismo si è imposta con l’avvento di leader carismatici, ma con la conseguenza di avere democrazie sempre più illiberali.
Non c’è alcun dubbio che i rivoltosi di Brasilia, e sicuramente anche i loro ispiratori politici, hanno sperato di trascinare dalla loro parte le forze armate, ma fortunatamente sembra che la polizia federale ed i militari non abbiamo alcuna intenzione di “giocare al golpe”, tanto che hanno risposto all’ordine del Presidente Lula di ripristinare la legalità.
Il fatto che le forze armate non vogliano un colpo di stato, e che tutti i Partiti, compreso quello di Bolsonaro, abbiano condannato questa aggressione alle Istituzioni, almeno nell’immediato dovrebbero garantire la legittimità del voto popolare e di Lula, che da parte sua sembra intenzionato a non reagire con soverchia durezza contro i rivoltosi.
Certo la Presidenza di sinistra non parte in un clima tranquillo, la situazione economica del Brasile è molto difficile, ma la Presidenza Biden assicurerà il sostegno degli Usa alle istituzioni democratiche brasiliane, cosa che non scommetterei sarebbe stata garantita in caso che alla Casa Bianca ci fosse Donald Trump.
Concludo riportando il tweet che la nostra premier Giorgia Meloni ha spedito in tarda serata, quando già le polemiche per il lungo silenzio si stavano alzando di livello: «Quanto accade in Brasile non può lasciarci indifferenti. Le immagini dell’irruzione nelle sedi istituzionali sono inaccettabili e incompatibili con qualsiasi forma di dissenso democratico. È urgente un ritorno alla normalità ed esprimiamo solidarietà alle Istituzioni brasiliane».
Non avevo alcun dubbio riguardo ai sentimenti democratici del nostro Presidente del Consiglio, nonostante le accuse di nostalgie fasciste rivoltele anche di recente da una sinistra a corto di argomenti, ma è bene che certe cose vengano condannate con immediatezza senza se e senza ma.
Non bisogna mai dimenticare che la democrazia liberale è un sistema complesso, che il populismo nega questa complessità, ma così facendo apre la strada al totalitarismo.