Come uscire vivi da Ikea
di Alessandro Cammarano
Qualcuno si ricorda “Un tranquillo weekend di paura” – titolo originale “Deliverance” – film del 1972 di John Boorman nel quale un simpatico quartetto di amici decide di passare il fine settimana a pesca sul fiume Cahulawassee sui monti Appalachi ritrovandosi invece a combattere una torma di hillibillies assatanati che tentano di massacrarli a suon di banjo?
Ecco, una domenica pomeriggio da Ikea fa si che in confronto le vicende di Ed, Lewis, Bobby e Drew in confronto sembrino un pellegrinaggio mariano.
Qualcuno potrebbe obbiettare con un elegantemente annoiato “Ma tu che ci vai a fare da Ikea la domenica pomeriggio?”, al che chi scrive replicherebbe con un condiscendente “Lo faccio per voi”, per stilare un essenziale manuale di sopravvivenza nel caso le circostanze vi portassero in giorno festivo al magazzinone di mobilio da assemblare, ma anche perché alla fine – volenti o nolenti – ci andiamo tutti e alla fine ci divertiamo pure in questo microcosmo scandinavo che è diventato parte di noi.
Che non sarà una giornata facile lo si intuisce già subito al parcheggio.
Quello coperto e già pieno alle nove e un quarto del mattino mentre gli stalli scoperti si vanno affollando di camper, pullmini alla Scooby Doo, Suv con rimorchio e vecchie corriere in disarmo: il tutto, ovviamente, per caricare tutti i pezzi che compongono l’armadio Gārderøbba, che se lo vuoi completo consta di più pezzi di un satellite geostazionario.
Trovato affannosamente un buco per la propria utilitaria – noi siamo lì, da perfetti masochisti, solo per comprare una coppia di lenzuola e sei coppette da gelato – si ascende tramite scala mobile al tempio della cassettiera smontata e del peluche ecosostenibile, ma subito si pone un dilemma: caffè sì o caffè no?
Ovviamente si decide per una seconda colazione, trovandosi ad essere gli ultimi di una coda di seimila persone che hanno avuto tutte la tua stessa idea.
Dopo un’attesa che nemmeno agli Uffizi se non hai prenotato, finalmente si arriva alla cassa dove un simpatico brufoloso ti apostrofa con un tagliente “Ce l’ha la Ikea Family? Sennò non posso farle il menù scontato, con brioche alla segatura d’acero e orzo bio”. Reprimendo con un sorriso fatuo uno spontaneo “Sai dove te la puoi mettere la Ikea Family, ragazzino?” si ripiega su un “Solo un espresso, grazie” e si procede alla volta del bancone, dove la calca di assatanati che sventolano lo scontrino cercando di guadagnare posizioni derubrica l’assalto al forno di manzoniana memoria ad una fila britannica.
Finalmente – dopo essersi muniti di borsa gialla – ci si immerge nell’universo parallelo fatto di piccoli ambienti perfettamente arredati e messi lì a suggerirti come potresti sfruttare al meglio gli spazi di casa tua.
Si scopre che in dodici metri quadrati puoi mettere un letto Bivakkå da mezza piazza, un mobilino cucina Stînfio che contiene anche il water, e una pila di scatoloni colorati Favėla atti a contenere qualsiasi cosa, dagli abiti ai sottaceti di zia.
Proseguendo gli ambienti si allargano e realizzi che in quaranta metri puoi mettere anche un divano Rilaxaborg a due posti e nello stesso tempo ti domandi se la povera vecchia – sicuramente nonna di qualcuno che l’ha trascinata a fare shopping all’alba e controvoglia – là accasciata e priva di conoscenza sia compresa nel prezzo finale o vada conteggiata a parte.
Nel frattempo nella insidiosa borsa gialla son misteriosamente caduti una confezione di pot-pourri floreale Keppuzzå, un candeliere di lamierino a forma di renna e una serie di segnalibri di betulla.
La stanchezza comincia a farsi sentire e una carezza ad uno dei diecimila cani che – invece di scorrazzare in campagna sono costretti ad accompagnare l’umano beota che li nutre – stanno seduti nei carrelli sarebbe una boccata d’aria fresca.
“Mi scusi, il suo cane morde?”, si domanda educatamente, “No, si figuri” risponde l’ometto dalle lenti spesse. Al che si tende la mano ricevendo un mozzico da gang dei dobermann. Doloranti si si replica “Ma mi aveva detto che non mordeva!” la risposta è “Mica è il mio cane quello.”: l’idea di tagliarsi le vene con un coltello Katæna si fa prepotente, ma nel frattempo il bambino che si è ingozzato di caramelline al cacao equosolidale e quinoa ha appena deciso di vomitarti sui piedi: è troppo, vado a pranzo, le polpette svedesi sono taumaturgiche.
Dopo due ore fila si arriva ad assaporare l’agognata pietanza, peccato che non ci sia un posto a sedere che sia uno e dunque si mangia appoggiati al famoso seggiolone Karegøttå cercando di non tirarsi tutto addosso.
“Rinfrancati” si giunge al piano inferiore, per scoprire che le coppette da gelato che volevi sono fuori produzione e allora per rabbia compri quarantadue contenitori Havanzø che vanno bene sia in frigo che in microonde e anche uno scolapasta pieghevole Makeronig.
Le lenzuola, nella fantasia che ti piaceva sono rimaste solo di un color “frittata con le zucchine” e francamente ti repellono, quindi compri quelle tipo seta che comunque da Frette avresti pagato la metà, ma tant’è.
Il pubblico aumenta, i bimbi frignanti non danno tregua, le vegliarde che ti investono col carrello sono ovunque: e allora via alle casse, rigorosamente fai-da-te dove passi un’altra oretta tra mentecatti che non sanno usare lo scanner e soprattutto si stanno portando via una cucina intera da montare.
Alla fine riesci a pagare scoprendo che hai speso l’equivalente del PIL svedese.
Finalmente arrivi al porto felice della Bottega Svedese, dove assaggi qualsiasi cosa senza preoccuparti se sia commestibile o no, ritrovandoti a mangiare un biscottino alla cannella con sopra un pezzetto di aringa in salamoia condita con salsa all’aneto.
Per fortuna ti ricordi dove hai parcheggiato perché dietro di te c’è un disperato che cerca la sua auto da tre settimane.
Via a casa, sul divano vecchio di nonna.