5 Ottobre 2023 - 8.57

Storica sentenza della Cassazione: no salario minimo, ma “salario giusto”

Ci sono sentenze che sono potenzialmente in grado di cambiare profondamente un sistema.

Sottolineo quel potenzialmente perché come in tutte le cose è sempre bene vedere come si sviluppano, e quali siano alla fine gli effetti concreti.

Sicuramente la sentenza 27711/23 della Cassazione, Sezione Lavoro, Presidente Guido Raimondi, è di quelle potenzialmente destinate a fare storia.

Prima di ogni considerazione guardiamo a cosa si riferisce. 

La 27711 ha dato ragione al dipendente di una cooperativa, una guardia giurata impiegata in un supermercato, che ha avuto la brillante idea di rivolgersi al Tribunale di Torino lamentando la retribuzione troppo bassa, e chiedendo che fosse accertato il suo diritto a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello del Ccnl dei dipendenti dei proprietari di fabbricati, ossia dei portieri.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro della vigilanza privata, infatti, è uno di quelli con le paghe più basse dell’intero mondo dei contratti collettivi italiani. Il vigilantes ha fatto causa alla sua cooperativa perché guadagnava 830 euro lordi al mese, che netti diventano 650. 

Salario da fame, se si pensa che si tratta di un lavoro full time. La domanda posta dall’avvocato ai Giudici era se queste cifre fossero rispettose dell’articolo 36 della Costituzione. 

In primo grado, il Giudice aveva accolto la richiesta del vigilante, e condannato la società cooperativa  a pagargli oltre venti anni di differenze retributive. 

Poi però, la Corte di Appello di Torino, con sentenza del luglio 2022, aveva fatto marcia indietro affermando che «vanno esclusi dalla valutazione di conformità all’art. 36 della Costituzione quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività, e sono siglati da Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale».

La Cassazione, terzo grado di giudizio, fa un ulteriore passo in avanti rispetto alle toghe torinesi, fissando una serie di condizioni.

Vediamo quali.

Il Giudice deve in via preliminare fare riferimento alla contrattazione nazionale di categoria, dalla quale però può “motivatamente discostarsi” se questa è in contrasto con il principio di proporzionalità e sufficienza fissato dalla Costituzione. 

Tradotto: la contrattazione collettiva non viene prima di tutto, come invece ha sostenuto, nei mesi precedenti, la premier Giorgia Meloni, in occasione dei ripetuti assalti delle opposizioni, magicamente unite quasi solo su questo argomento. 

Altro paletto: se il salario di un contratto collettivo è da fame, allora il giudice, ai fini della determinazione del “giusto salario minimo costituzionale”, può riferirsi a contratti collettivi di settori affini; ovviamente al rialzo. 

Infine, il giudice chiamato a decidere, di volta in volta, su un salario troppo basso, può fare riferimento a indicatori economici e statistici, come suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022, per la quale il salario non deve solo consentire di uscire dalla povertà, ma garantire che i livelli minimi siano “adeguati” per conseguire “condizioni di vita e di lavoro dignitose”, e anche di partecipare “ad attività culturali, educative e sociali”.

Ma credo che il passaggio più importante del pronunciamento sia quando la Corte sottolinea che: “nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione, che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento». 

Tra gli strumenti per effettuare la verifica, i giudici citano il paniere Istat, l’importo della Naspi o della Cig, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità, e l’importo del reddito di cittadinanza , avvertendo però che sono tutte forme di sostegno al reddito che garantiscono una «mera sopravvivenza», e quindi non sono «idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione» nel senso indicato dalla Costituzione e dalla Ue.

Data la tempistica, era inevitabile che questa sentenza entrasse “a piedi uniti” nello scontro in atto fra maggioranza e opposizione sull’opportunità di adottare il cosiddetto salario minimo. 

Vi risparmio quindi il giubilo di Pd, 5 Stelle, Calenda ecc. ed i silenzi imbarazzati del Governo.

Nessuna reazione neanche delle Parti sociali (Sindacati e Aziende) che a mio avviso sono i soggetti che ne escono più malconci, perché di fatto si sono sentiti dire dalle toghe: “dovete scrivere contratti collettivi adeguati”. 

Ma perché ho affermato che questa decisione potrebbe destabilizzare il sistema?

Per il semplice motivo che la Suprema Corte in sostanza ha riservato ai giudici, al dà di una eventuale legge sul salario minimo e della contrattazione collettiva, il diritto di avere sempre l’ultima parola in tema di livelli salariali, e ciò alla luce dell’art. 36 della Costituzione.

Rileggendo questo articolo della Carta, che recita: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”,  risulta evidente che la sua valenza è tale che anche se il Parlamento fissasse per legge un salario minimo, e pur in presenza di una contrattazione collettiva condotta da Sindacati e Associazioni datoriali, la Magistratura potrà sempre intervenire qualora valutasse che non è stato rispettato il dettato costituzionale.

Non so se vi è chiaro.  La Cassazione ha fatto un salto, nel senso che dal concetto di salario minimo è passata a quello di salario giusto in rapporto alla prestazione lavorativa. 

Di conseguenza, alla luce della specificità dei lavori, parrebbe di capire che secondo i giudici esistono tanti salari giusti. 

Viene da chiedersi: ma qual è il livello salariale sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa? 

In altre parole, qual è il salario “giusto” per un bancario, per un metalmeccanico, per 

un insegnante?   

Esiste un salario “giusto” se si abita al nord piuttosto che al sud?

E ancora, 1200 euro al mese con una famiglia da mantenere è un salario “giusto”?  

A questo punto si tratta proprio di una bella domanda, alla quale secondo la Cassazione, sembra potrebbero rispondere in ultima istanza solo i Giudici.

Quindi un colpo al Parlamento al quale si dice “il salario minimo non è comunque risolutivo del problema se non è in linea con l’art. 36 della Costituzione”, ma anche ai Sindacati, per i quali il messaggio è il seguente: “se la contrattazione collettiva non tiene conto dell’inflazione, se non è in grado di garantire rinnovi contrattuali tempestivi, se non riesce a mettere a punto contratti collettivi adeguati a garantire retribuzioni costituzionalmente giuste,  allora il Sindacato non sta facendo bene il suo lavoro, e noi Giudici possiamo intervenire”.

Capite bene che, se tale orientamento giurisprudenziale venisse confermato, non so come le imprese potrebbero decidere quale sia la base di riferimento perché un salario si possa definire “giusto”, ed allo stesso tempo le grandi Centrali sindacali dopo aver siglato un contratto nazionale potrebbero vederlo messo in discussione da un Giudice.

A meno di non voler immaginare di introdurre una sorta di “bollinatura”, di “garanzia di costituzionalità”, da parte dei Giudici per ogni contratto di lavoro prima della sua entrata in vigore.

Ma a quel punto, mi verrebbe da dire, varrebbe la pena di attribuire direttamente ai giudici stessi il compito di redigere i contratti collettivi, fissando i livelli retributivi “giusti”. 

E’ evidente che l’obiettivo della Cassazione è quello di riaffermare i principi dell’art. 36 della Costituzione, e con questa sentenza, inutile girarci attorno, sembra si sia stabilito un principio generale e astratto valido per tutti i settori lavorativi, secondo cui l’ultima parola in tema di congruità della retribuzione spetta al Giudice. 

Non è facile  immaginare le conseguenze concrete di detta pronuncia; ma non c’è dubbio che nel mondo del lavoro potrebbe ingenerare grande incertezza, perché, date le premesse, un qualsiasi lavoratore potrebbe ritenere la propria retribuzione da CCNL “non in linea con la Costituzione”, e rivolgersi alla Magistratura per avere un aumento.

Data la rilevanza del tema, fra l’altro molto sentito dai cittadini, l’unica cosa che la politica non può permettersi è fare finta di niente!

Umberto Baldo

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