Gente da museo
Una volta – dalla seconda metà del Quindicesimo secolo alla prima del secolo scorso, per
intenderci – i giovani rampolli delle famiglie agiate di tutta Europa passavano almeno due anni
della loro vita a fare il Grand-Tour, ovvero un viaggio alla scoperta di Italia, Grecia, Vicino Oriente e
qualcuno anche Egitto e Nord Africa; il tutto per conoscere a fondo e da vicino ciò che sulla
Classicità avevano studiato sui libri.
Adesso al massimo un diciottenne si fa un bel Interrail alla scoperta dei coffee shop olandesi, ma,
si sa, i tempi cambiano.
In ogni caso – ed è un bene, meglio specificare – la facilità degli spostamenti e anche la possibilità
di viaggiare a prezzi decenti ha portato nei decenni ad un aumento esponenziale delle persone
che, volendolo, possono fruire delle bellezze custodite nei parchi archeologici e soprattutto nei
grandi musei.
E qui comincia il bello, perché il pubblico che visita le grandi collezioni – dagli Uffizi ai Musei
Vaticani, dal Louvre al Prado – è diventato negli anni un fantastico bestiario variopinto composto
da specie facilmente individuabili e degne di essere stigmatizzate.
Ovviamente i musei di tutto il mondo sono pieni di veri appassionati e di studiosi competenti, che
però sono sicuramente assai meno divertenti dei “visitatori” oggetto della nostra analisi.
Iniziamo con una delle categorie più comuni, ovvero “Quelli che DEVONO andare”: di solito sono
persone magari discretamente acculturate ma non particolarmente interessate all’arte e alle
mostre, che però, per ansia da presenzialismo o “perché mia cognata ci è andata l’anno scorso”
non possono esimersi dalla visita, della quale si vanteranno con tutti, dal salumiere al confessore.
I soliti dannati social hanno prodotto una categoria tra le più infami, vale a dire quella dei tiktoker-
influencer che vanno, per esempio, al British Museum per fotografarsi con la bocca culo di gallina
sullo sfondo dei Marmi Elgin o fanno una bella storia con loro protagonisti beoti davanti alla Stele
di Rosetta.
Tra i personaggi inquietanti che popolano mostre e musei uno dei più agghiaccianti è “il
seguitore”: avete presente quel personaggio apparentemente anonimo, il più delle volte dimesso
che notate giusto quando si incomincia a fare la fila per accedere alla visita?
Ecco, ve lo ritroverete sempre attaccato dietro, inspiegabilmente, come se vi avesse eletto ad
unico capolavoro da osservare, ovviamente sempre di sottecchi, attento ad ogni vostro
movimento.
Non sarà con voi solo mentre ammirate il dipinto celebre o la scultura famosa; no, ve lo
ritroverete, anche quando deciderete di andare in bagno, ad attendervi fedele al lavabo o nei
pressi del soffione asciugamani. Rientrati a casa lo sognerete almeno un paio di notti, come le
gemelline di Shining.
Terribili i gruppi di professoresse in pensione – generalmente con l’espressione minacciosa di chi
tra per chiedere al primo che passa il congiuntivo perfetto di “mori” o un logaritmo in base otto di
un numero decimale – che impiegano il molto tempo libero nei viaggi culturali.
Solitamente sono accompagnate dalla collega docente di Storia dell’Arte, nonagenaria e sorda, che
“spiega” le diverse opere come se avesse ingoiato un megafono tanto parla forte, il tutto con voce
rauca da toscanello.
Spin-off di queste è la povera professoressa giovane che accompagna una classe brufolosa e più
concentrata sullo smartphone che non interessata al bassorilievo ellenistico. La poverina tenta
l’approccio conciliante, ovviamente ignorato, per trasformarsi in una erinni attraverso una serie di
passaggi che comprendono minacce che culminano con un sibilante “giovedì ci sono gli scrutini del
primo quadrimestre”.
Rimanendo nell’ambito del branco che dire delle masnade di cinesi sempre tutti ammassati come
fossero attaccati gli uni agli altri con il mastice e che fotografano compulsivamente cestini per i
rifiuti, cartelli “vietato fumare”, buchi della serratura, i loro piedi, ignorando forse volutamente il
Raffaello appeso giusto davanti a loro.
Chiudiamo con le famigliole cafone, magari pure benestanti ma sempre buzzurre, che vanno in
giro bardate con capi strafirmati – talora vistosamente farlocchi – e riconoscibili da orridi maxilogo
e coronato dall’immancabile cappellino borchiato.
Una di queste tribù – padre, madre, due nonni e quattro figli dai dodici ai tre anni – mi è capitata
non più di una settimana fa al Louvre.
Ai piedi della Nike di Samotracia il capofamiglia mi si avvicina – dopo aver scommesso con se
stesso che io lo avrei compreso – chiedendomi in un italiano incerto “Scusate, sapete se qui dentro
ci sta un MacDonadd?”. Senza scompormi ho fatto un sorriso mentre, in francese, gli rispondevo
“Mi scusi, non capisco, sono lituano”.
Ripensandoci avrei potuto mettere in atto una supercazzola spettacolare spedendoli nell’ala
opposta dell’immenso museo parigino, raccomandando loro di chiedere ad un custode non
appena fossero arrivati a destinazione.
Ma non sono così cattivo. Forse.