Ombre sulla reincarnazione del Dalai Lama
Ieri, parlando dello scontro in atto fra Hamas e Israele abbiamo ragionato sulle conseguenze, solitamente nefaste, che derivano dagli sconfinamenti della religione nella politica.
Oggi ritorniamo sull’argomento dalla prospettiva contraria, guardando cosa succede quando è la politica ad entrare a gamba tesa nel mondo del trascendente.
Un esempio eclatante lo troviamo nella questione della successione del Dalai Lama.
Perché quella che dovrebbe essere una problematica meramente religiosa, da lungo tempo è diventato un affaire politico che divide i due giganti dell’Asia; Cina ed India, aggravando ed esacerbando le annose problematiche di confine fra i due Stati.
Per inquadrare il problema bisogna necessariamente partire dal territorio del Tibet, il cosiddetto “tetto del mondo”, la culla del buddismo, la cui capitale Lhasa è il luogo in cui sorgono l’ex residenza invernale del Dalai Lama, il palazzo del Potala, e il tempio di Jokhang, centro spirituale del Tibet, dove i pellegrini si recano a venerare la statua dorata del giovane Buddha.
Il Tibet, grande un quarto del territorio cinese, è oggi una regione della Repubblica Popolare Cinese, ma non lo è da sempre.
È diventata parte integrante dello Stato cinese dagli anni ’50 in poi, dopo l’occupazione militare dell’esercito maoista.
Storicamente, il Tibet è sempre servito a Pechino come zona cuscinetto per proteggere il nucleo del paese dalle invasioni terrestri, vale a dire la parte del paese in cui si concentrano i principali poli geopolitici, quindi Pechino, Shanghai, Guangzhou, Hong Kong, Chonqing e la stessa Wuhan.
Non va poi trascurato che dall’altopiano tibetano sgorgano i principali fiumi dell’estremo oriente: il Fiume Giallo, il Fiume Azzurro, il Mekong, il Brahmaputra, per cui controllare la riserva idrica di questo territorio vuol dire gestire un sistema idrografico molto articolato, e strategico in quanto determinante anche per altri Paesi dell’area.
Se a tutto questo aggiungete che il Tibet viene considerato la culla del Buddhismo, una delle religioni più diffuse nella Repubblica Popolare Cinese, capite bene che gli ingredienti per uno scontro sino-indiano ci sono tutti.
Anzi a volerla dire tutta è proprio la questione del Dalai Lama ad essere diventata una vera e propria spina nel fianco di Pechino.
Il motivo è facilmente intuibile.
La cricca di Mandarini, formalmente comunisti, che governano la Cina non può permettere che un Capo spirituale, peraltro rifugiato in un altro Paese, si rivolga dall’alto della sua autorità religiosa ad una larga fetta della propria popolazione (non solo i tibetani ma anche tutti gli altri buddisti cinesi) dicendo cosa fare e come comportarsi.
Ricorderete certamente che problemi analoghi la Cina li aveva sollevati con la Chiesa Cattolica relativamente alla nomina dei vescovi delle diocesi cinesi.
Tenzin Gyatso, attuale capo dei Buddhisti, XIV Dalai Lama del Tibet, ha promesso che vivrà fino a 113 anni, età profetizzata da un lama del XVIII secolo.
Ma considerando che oggi ha 88 anni, il tema della sua successione – o reincarnazione, secondo la religione buddista – inizia però ad affacciarsi sempre più spesso nelle menti della diaspora tibetana e del regime di Pechino, in quello che sembra destinato a diventare uno scontro frontale sul futuro leader spirituale dei tibetani.
Capite bene che dietro la successione c’è un’enorme questione geopolitica: perché da un lato c’è Pechino, determinata a indicare una personalità amica del regime, e dall’altro lato ci sono l’India , gli Usa e tutti quei Paesi dove è forte la diaspora tibetana, che si oppongono alle pretese della Cina.
Pensate che gli Stati Uniti hanno messo nero su bianco un documento sul futuro del Tibet in cui spicca la loro battaglia per una “reincarnazione libera” (sic”!) dai dettami di Pechino.
Qualche avvisaglia di quello che potrà succedere la si è avuta di recente, quando è stato reso noto che il Dalai Lama ha nominato il decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddismo tibetano.
Si tratta di un bambino di otto anni, originario della Mongolia, Paese che ha sicuramente gioito per la scelta di un proprio bimbo, ma che teme per la possibile reazione negativa di Pechino.
Ovviamente la Cina non ha riconosciuto questa nomina, vissuta anzi come provocatoria, visto che il bimbo è nato negli Stati Uniti; diniego che ha dunque coinvolto direttamente Washington, da sempre pronta a riconoscere e sostenere tutte le scelte del Dalai Lama, considerato da Pechino un “secessionista”.
Un precedente lo si era avuto già nel 1995, quando un bambino di 6 anni fu scelto come nuovo Panchen Lama, la seconda figura più importante della fede buddista.
Tre giorni dopo venne preso in custodia dalle autorità cinesi e sostituito con un altro candidato.
Figuriamoci cosa potrà accadere quando si dovrà scegliere la prima carica del Buddhismo.
Sicuramente la Cina farà pesanti pressioni su Mongolia, Bhutan e tutti gli altri Stati interessati, e ciò potrebbe innescare forti turbolenze con l’India che ospita il Dalai Lama ed il Governo tibetano in esilio a Dharamsala, località vicina al confine cinese.
Non credo si possa escludere che, quando sarà, usando la similitudine della fumata bianca che accompagna la nomina del Pontefice romano, alla fine in Tibet di fumate bianche ce ne possano essere addirittura due, con due Dalai Lama designati, con buona pace della teoria della reincarnazione.
Uno insediato oltre il confine sud occidentale del Tibet, in territorio indiano, ed un altro a Pechino, scelto e designato dal partito Comunista cinese.
Come sempre la storia ci offre qualche analogia, sia pure fatti tutti i distinguo del caso. E mi riferisco alla nostra Chiesa Cattolica, che ha vissuto fin dalle sue origini il fenomeno cosiddetto degli “antipapi”: nel 1414 per fare un esempio erano tre i Papi regnanti: Papa Gregorio XII a Roma, Benedetto XIII ad Avignone, e Giovanni XXIII a Pisa.
Analogamente a quello che accadde per la successione del Dalai Lama, anche allora ogni Pontefice aveva alle spalle dei sostenitori politici; in primis l’Impero.
Concludendo, come accennato all’inizio, talvolta è la politica ad ingerirsi pesantemente negli affari religiosi.
In Cina sono presenti cinque religioni ufficialmente riconosciute: il buddhismo, il taoismo, il protestantesimo, l’islam e il cattolicesimo; quest’ultimo converge nell’Associazione Patriottica Cattolica Cinese controllata dal regime di Xi Jinping.
I leader cinesi, come tutti i despoti, temono i luoghi di culto presenti sul proprio territorio, timorosi che possano diventare terreno fertile per la dissidenza, anche perché memori che nella caduta del comunismo in Europa è stato fondamentale il ruolo dei cristiani.
A maggior ragione vogliono controllare i buddisti cinesi, pretendendo di avere l’ultima parola nella nomina del Dalai Lama, ma rischiando così di riportare alle luci della ribalta internazionale la questione del Tibet, e le relative tensioni con l’India.
Namasté!
Umberto Baldo