Gino Donè “el italiano”, nato in Veneto, ora riposa assieme ai suoi compagni del Granma
Se non avesse come protagonista un italiano, più precisamente un veneto, probabilmente la notizia di cui vi parlerò oggi non mi avrebbe colpito più di tanto.
Perché l’ambito è quello ormai lontano della rivoluzione castrista a Cuba, cui partecipò in prima persona Gino Donè, “el italiano” come lo soprannominò el Lider Maximo Fidel Castro (nella foto è quello coi baffi a sinistra di Castro per chi guarda).
Non è certo obbligatorio saperlo, ma a bordo della nave Granma, il cui sbarco il 2 dicembre 1956 ai piedi della Sierra Maestra segnò l’inizio della rivoluzione, c’erano 82 volontari, di cui 78 cubani e quattro stranieri: il messicano Alfonso Guillén Zelaya Alger, il dominicano Ramón Emilio Mejías Del Castillo, l’argentino Ernesto Che Guevara de la Serna, e appunto l’italiano Gino Donè, che era anche il più anziano degli 82, e aveva il grado di tenente nel Terzo Plotone comandato da Raoul Castro.
Mi rendo conto che dopo settant’anni il ricordo di quella rivoluzione, che portò all’abbattimento del regime corrotto di Fulgencio Batista, si è ormai affievolito, anche per questioni meramente “biologiche”, ma cosa volete, la mia generazione, che ha vissuto da liceale il ’68, è stata in qualche modo condizionata e affascinata dal movimento castrista e guevarista (è stato così anche per chi, come me, non ha mai abbracciato l’ideologia comunista).
E’ difficile per noi dimenticare che durante qualsiasi manifestazione studentesca (e ce ne furono molte in quegli anni) regolarmente, assieme allo slogan “Hasta la victoria siempre”, si sentiva cantare “venimos a defender la revoluciòn cubana, porque sea la primera de la lucha americana, Cuba si Yanqui no”.
Arrivando alla notizia cui accennavo all’inizio, si tratta del fatto che, dopo 15 anni dalla sua morte, l’ultimo desiderio di Gino Donè è stato esaudito, e così pochi giorni fa, il 2 dicembre, le sue ceneri (partite da San Donà di Piave) sono state tumulate nel Pantheon delle forze armate nel cimitero monumentale dell’Avana, dove riposeranno accanto a tutti i suoi compagni del Granma, ad eccezione del Che e di Fidel sepolti rispettivamente a Santiago e a Santa Clara.
Ma come ha fatto “el italiano” a trovarsi nel 1956 a bordo di quella nave, assieme ai “barbudos” che alla fine vinsero a Cuba?
La sua storia sembra quasi un romanzo d’appendice, per cui ne accenno i capitoli principali.
Nacque da una famiglia di poveri braccianti il 18 maggio 1924, nella casa colonica situata al civico numero 6 dell’attuale via 25 aprile, nel paesino di Rovarè, una piccola frazione del Comune di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso.
All’anagrafe italiana il suo nome di nascita è Gino Giacomo Donè (Gino era il nome del nonno materno, e Giacomo quello del nonno paterno). Successivamente sul passaporto italiano compare solamente Gino Donè, mentre all’anagrafe cubana, dopo il primo matrimonio, verrà registrato come Gino Donè Paro, prendendo anche il cognome materno, come d’uso nei Paesi di lingua spagnola.
Dopo le scuole professionali, nel 1942 venne arruolato nell’esercito italiano.
L’8 settembre 1943, all’annuncio dell’armistizio si trovava a Pola, capoluogo della allora italiana Regione Istriana.
Tornato via mare a Venezia divenne combattente nella Brigata Partigiana Piave, e nel 1944, ventenne, entrò nella Missione Alleata Nelson operante nell’area della Laguna Veneziana, e lì combatté fino alla fine del conflitto. Come partigiano fu sicuramente apprezzato, tanto che nel 1946 ricevette un encomio solenne, deciso dal comandante in capo britannico Harold Alexander, per il salvataggio di alcuni prigionieri inglesi catturati dai tedeschi,
Terminata la guerra, dopo la Liberazione l’Italia non fu generosa con lui: la disoccupazione e l’obbligo di prestare servizio di leva per altri due anni lo spinsero nel 1947, zaino in spalla, ad abbandonare il Paese per cui aveva combattuto e ad emigrare, prima in Francia, Belgio e Germania, dove fece il minatore, e poi in Canada.
Nel 1951 trovò lavoro all’Avana come carpentiere per la costruzione della nuova grande Plaza Civica (l’attuale Plaza de la Revolución).
A Cuba sposò Norma Turino Guerra, e conobbe Aleida March de la Torre (che sarebbe diventata la seconda moglie di Che Guevara); fu lei che parlò dell’ex partigiano italiano a Fidel Castro ed ai rivoluzionari cubani.
Ed è così che Gino Donè finirà per essere l’unico italiano, e l’unico europeo, che parteciperà con le armi in pugno alla Rivoluzione cubana.
Va ricordato che nella capitale cubana conobbe anche Ernest Hemingway, ed ebbe modo di parlare con lui della propria regione di origine, perché lo scrittore statunitense aveva dimorato in Veneto, lungo le rive del fiume Piave, durante la prima guerra mondiale, e da quella esperienza aveva tratto ispirazione per i suoi romanzi “Addio alle armi”, e “Di là dal fiume e tra gli alberi”.
Per le vicende della vita, Donè dopo la vittoria del castriamo non risiedette stabilmente nell’isola di Cuba, bensì negli Stati Uniti, dove si sposò in seconde nozze con l’americana Antonietta De la Cruz.
Nel 2003, dopo avere abitato e lavorato in Florida, doppiamente vedovo e senza figli, decise di ritornare in Italia, a San Donà di Piave in provincia di Venezia, dove vivevano molti suoi parenti, e dove ritrovò compagni antifascisti conosciuti durante la Resistenza nella Laguna veneziana.
Nel 2005 ritornò varie volte a Cuba, accompagnato dai coproduttori torinesi del documentario a lui dedicato “Cuba Libre: el desembarco del Granma”, ed in questo filmato si vedono Gino e Fidel, entrambi commossi, che si abbracciano e si baciano.
Fu il suo penultimo viaggio a Cuba (ritornò a dicembre dell’anno successivo per la commemorazione del 50º anniversario dello sbarco del Granma).
Nel 2008 Gino Donè Paro morì improvvisamente in una clinica di San Donà di Piave la sera del 22 marzo, alla vigilia di Pasqua, circondato dai familiari più stretti (sorelle e nipoti). Al suo funerale (avvenuto a Spinea il 27 marzo, dove fu cremato) parteciparono centinaia di compagni provenienti da tutta Italia, unitamente ad alcuni funzionari dell’ambasciata cubana di Roma che avevano fatto pervenire quattro grandi corone di rose rosse da parte di Fidel Castro, di Raul Castro, dell’Ambasciata cubana e dei granmisti sopravvissuti, oltre a molta gente comune.
E finalmente il 2 dicembre scorso, come aveva chiesto fin da quando era imbarcato a bordo del Granma, le sue ceneri hanno compiuto l’ultimo viaggio verso Cuba.
Questa in breve la storia di questo veneto, che aveva fatto la guerra mondiale e la Resistenza, e che a trent’anni finì con Fidel Castro e Che Guevara a fare la rivoluzione.
Cosa volete, sarà perché forse resto un inguaribile romantico (e anche per questo vi rimando ad un altro mio pezzo su Tviweb del 14 febbraio 2022 dal titolo “Muore giovane chi agli dei è caro – il mito di Che Guevara”), ma mi ha particolarmente affascinato la figura di Gino Donè.
Anche perché era un uomo sorretto non dall’ideologia marxista, ma da altri sentimenti.
Infatti, interrogato più volte negli ultimi anni della sua vita, spiegò che a motivarlo non era né «l’ideologia marxista leninista come Ernesto» (Guevara), né “la fiducia incrollabile di Fidel nel successo della guerra contro la dittatura”.
Gino “el italiano” si definiva “un selvaggio”, tenacemente ribelle, disposto a lottare contro i sistemi che opprimono quelli come lui, venuti dal basso, dalle paludi, da lavori estenuanti e mal pagati; gli “invisibili” insomma.
In estrema sintesi un uomo che ha continuato per tutta la vita a pensare che valeva la pena combattere e rischiare la pelle per la causa degli oppressi, ovunque fossero.
Umberto Baldo