3 Gennaio 2024 - 8.38

Manca la neve, sciare costa una follia: chi se lo può permettere?

Umberto Baldo

La vigilia di Natale ho telefonato per gli auguri ad una mia nipote che, beata lei, ha una bella casa in una nota località turistica ad una manciata di chilometri da Cortina d’Ampezzo.

Inevitabili le due domande di rito: Che tempo fa?  Stai sciando?

Risposte: il tempo è bello e soleggiato.  La neve è la grande assente, ed io sto portando il cane a passeggiare nei boschi, in un’aria che sembra primaverile. 

Avete capito che parliamo del 24 dicembre, un periodo dell’anno in cui da sempre i paesaggi del Cadore, e delle Alpi in generale, avevano un solo colore; il bianco.

Intendiamoci, può anche essere che nel momento in cui leggerete questo pezzo magari in qualche località sia caduta un po’ di neve fresca.  

Ma in ogni caso anche una nevicata dopo l’Epifania non risolverebbe il problema, visto che la parte più significativa del giro d’affari del turismo invernale si realizza  nel periodo compreso fra le Festività di Natale, Capodanno, e appunto la Befana. 

Non facciamoci fuorviare dai servizi dei telegiornali con i cronisti che hanno alle spalle distese innevate a perdita d’occhio, in un ambiente da favola.

Quelle riprese sono fatte nei punti più alti delle nostre montagne, e sono funzionali alla narrazione del “tutto esaurito”, e dei “vacanzieri” (termine che trovo orribile) felici di sciare in un ambiente adeguatamente innevato, e quindi mostrare che “va tutto bene”.

La verità è ben diversa, e basta andare a farsi un giro per le località deputate allo sci, soprattutto quelle fra i 1000 ed i 1300 metri, per constatare che le piste sono in realtà lingue di neve strette pochi metri, che scendono come serpenti bianchi dalle pendici erbose, di uno smunto verde-marrone. 

E’ inutile girarci attorno; questo è lo scenario di gran parte dei comprensori sciistici italiani; caldo record, zero neve naturale, e una volta percorso il “serpente”, allo sciatore viene voglia di togliersi la giacca a vento perché troppo pesante per la temperatura. 

E dove le cose sono andate meno bene, nel senso che il caldo non ha neppur consentito l’innevamento artificiale, come ad esempio in tutta la catena appenninica, gli impianti sono chiusi, in attesa di una nevicata che chissà se mai arriverà. 

Certo a stare a sentire i negazionisti climatici non ci sono problemi (Donald Trump in testa), e la terra ha sempre avuto periodi più caldi e periodi più freddi.

Non c’è alcun dubbio che alterazioni della temperatura ci siano state nella storia del clima della nostra terra, ma credo sia un dato innegabile che da un po’ di anni a questa parte gli inverni assomigliano sempre più a primavere, e che rispetto al passato le precipitazioni nevose si sono fatte sempre più rare nella fascia 1300-1700 metri. 

Detta in altre parole: per trovare la neve naturale bisogna avvicinarsi (e purtroppo a volte non basta) ai 2mila metri di quota.

Ciò significa che molti comprensori sciistici da anni fanno fatica a restare aperti, e devono perciò essere sostenuti con finanziamenti pubblici.

Guardate che non è un problema solo del nostro Paese, e la riprova sta nel fatto che ormai è diventato normale che una gara di coppa del mondo di sci possa essere cancellata per “troppo caldo” o “mancanza di neve”.

Leggendo quanto pubblicato, addirittura nel 2017, da Swiss.info.ch,  si apprendeva che secondo uno studio dell’Università di Lucerna, due terzi delle società proprietarie di impianti di risalita in Svizzera dipendevano da soldi pubblici per sopravvivere.

Se è così in Svizzera, dove le nevicate sono tradizionalmente più abbondanti che nel versante sud delle Alpi, quello italiano per intenderci, credo che per guardare al futuro, cercando di immaginare qualcosa di nuovo, sia necessario partire dalla constatazione, ormai sotto gli occhi di tutti, che anno dopo anno la carenza di neve in Italia è oggi più grave e frequente rispetto al passato. 

Questo ha sicuramente conseguenze di carattere economico, perché se manca la neve naturale arrivano molti meno appassionati di sci, e in generale turisti, anche se gli impianti sono aperti grazie al sostegno della neve artificiale. 

E ciò impone che in Italia, e negli altri Paesi in cui si è sviluppato il turismo invernale, servirà valutare con attenzione il rapporto costi-benefici dell’innevamento artificiale, probabilmente limitato, a fronte di un significativo impatto economico ed energetico.

Non è un mistero che la produzione di neve artificiale abbia elevati costi sia in termini ambientali (alterazione dell’ecosistema montano, prelievo e consumo di acqua, danni ai boschi e agli animali) sia in termini economici: produrre un metro cubo di neve, costa ora dai 3 ai 7 euro; con un metro cubo d’acqua, inoltre, si producono in media 2,5 metri cubi di neve.   Ciò significa che per innevare un ettaro di pista – dando per scontato che ci sia già un fondo di neve naturale, ma ultimamente manca anche quello – servono circa mille metri cubi d’acqua (e tra i 2mila e i 7mila kilowattora). Ne consegue aumento del costo dello skipass ormai attorno ai 70 euro al giorno; pensate ad una famiglia di 4 persone che per poter sciare solo di risalite spende quasi 300 euro a giornata. Sport da ricchi insomma.

Un altro dato per chiarire la questione: secondo Legambiente, per le Alpi italiane servirebbero 96milioni di metri cubi di acqua all’anno.

E non va poi trascurato che questi numeri cambiano a seconda delle temperature, e  dell’altitudine delle stazioni sciistiche. 

Vedete, non pensiate che non mi renda conto che il boom degli sport invernali negli ultimi decenni ha contribuito a mantenere ed espandere significativamente le attività economiche nelle valli alpine, e a contenere così un massiccio spopolamento della montagna. 

Ma come in tutte le cose, ciò ha risvolti politici ed economici; e quindi credo sia opportuno valutare se la risposta che stiamo dando al problema sia adeguata, e soprattutto sostenibile nel lungo periodo. 

Perché negli ultimi anni, anche se la neve non arriva più come un tempo, ci hanno pensato i Governi a finanziare nuovi impianti di innevamento artificiale – altamente energivori – diretti soprattutto alle stazioniin difficoltà a causa delle scarse precipitazioni.

E così anche la Legge di Bilancio appena approvata destina 200 milioni a fondo perduto  che serviranno per costruire vasche e bacini di approvvigionamento idrico, sostituire e ammodernare gli impianti a fune, e avviare il cosiddetto snow-farming.

Senza contare che gli ingenti investimenti necessari per l’innevamento artificiale delle piste porteranno ad ulteriori rincari dei prezzi.  Già oggi, molte persone stanno abbandonato lo sci per motivi finanziari, ed è molto probabile che in futuro le piste ad alta quota saranno riservate solo ad una fascia agiata della popolazione.

Come accennato, quelle in atto sono tutte scelte dal forte impatto ambientale sugli ecosistemi montani, che vengono incentivate dalla politica indipendentemente dall’altitudine dei comprensori.

Il tutto contro ogni logica di adattamento al riscaldamento globale in atto, ma soprattutto senza alcuna certezza di raggiungere l’obiettivo di rivitalizzare il settore, visto che non siamo certamente ancora in grado di “abbassare le temperature a comando”. 

Senza voler negare il problema di interi paesi e comprensori montani, non posso non riproporre la domanda: pensiamo veramente di poter sussidiare il turismo invernale come si trattasse di un’azienda decotta come l’Ilva, o come si è fatto per decenni con l’Alitalia?

O non sarebbe meglio valutare se non sia il caso di sviluppare, e allora sì finanziare adeguatamente, reali alternative da affiancare progressivamente allo sci, ovviamente per far sì che la gente continui a frequentare la montagna  in inverno?

Ad essere onesto io sono convinto che in realtà non ci sia un’attività in grado di generare da sola gli stessi proventi dello sci. 

Ma visto il caldo che avanza credo sarebbe più opportuno lavorare su una gamma di prodotti diversificati, dalla mountain bike all’escursionismo solo per fare un paio di esempi, che penso possano avere un enorme potenziale di sviluppo.

Come si vede non si tratta di abbandonare un intero settore economico a se stesso, ma di aiutarlo a ripensare il futuro senza scadere nell’accanimento terapeutico.

Non sarà facile convincere gli operatori dello sci ad una qualche forma di riconversione, ma alla fine ci penserà la crisi climatica.

Umberto Baldo 

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