Cafoni al ristorante: quando il proprietario del locale diventa martire
Cafoni al ristorante
di Alessandro Cammarano
L’inflazione non scende, i salari non salgono, le bollette energetiche schizzano verso l’alto, fare il pieno di carburante è un salasso che manco un cerusico medievale avrebbe saputo fare con tanta crudele sagacia; eppure i ristoranti, di qualunque categoria, dallo stellato alla trattoria con le tovaglie di carta e magari pure con il cameriere non lavatissimo, sono sempre strapieni.
Per cenare il sabato sera, ma talvolta pure in mezzo alla settimana, ormai è necessario prenotare con almeno due settimane di anticipo sennò la risposta sarà invariabilmente “Ci spiace ma siamo pieni, magari provi un’altra volta”.
Questo perché la cena, o il pranzo fuori, è diventato ecumenico e al ristorante ci vanno davvero tutti, benestanti o meno, tanto che viene da chiedersi a cosa si sia disposti a rinunciare pur di mangiare un piatto di pasta o una grigliata di carne o pesce annaffiata da un vino decente e coronata dall’immancabile tiramisù o panna cotta.
Non è questione di classismo o di essere snob, ma una volta – e a ben pensarci pure adesso – la ristorazione era divisa in fasce che non lasciavano scampo, come le caste in India e una volta il ricco andava a cenare dal grande chef, il cittadino medio frequentava la trattoria a conduzione familiare e chi aveva meno ancora si accontentava dell’osteria.
Sì, lo so, sono politicamente molto scorretto, ma trovo che vivere al di sopra delle proprie possibilità sia uno dei grandi mali che affliggono la nostra società ormai schiava dell’apparenza.
Se i modelli di successo per i giovani, ma non solo, sono Briatore e i calciatori allora siamo rovinati davvero.
È doveroso precisare che comunque la buona educazione, così come la cafonaggine, prescinde dal denaro ed è assolutamente trasversale.
Pensavate che il discorso potesse finire qui? Con un pippone alla John Elkann? Poveri illusi, adesso viene il bello perché vorrei prendervi sottobraccio per guidarvi nel fantastico e disgustoso mondo dei cafoni al ristorante esaminando alcune delle tipologie più perniciose e capaci di rovinare il pranzo o la cena dei poveretti che hanno la sventura di imbattersi in loro.
Iniziamo dal più infimo, ovvero dal “recensore”.
Oramai tutti si sentono non solo in diritto ma in pieno dovere – come crociati della cucina che si battono contro gli infedeli della ristorazione – di esprimere giudizi su qualunque cosa mangino o bevano, complici alcune note piattaforme e applicazioni sulle quali si può scrivere pure che la torre di Pisa è brutta perché pende o che il Colosseo non somiglia per niente a quello del Gladiatore.
Il “recensore” disquisisce, molto spesso in un italiano claudicante, su qualunque cosa nemmeno fosse un ispettore della Guida Michelin che deve attribuire la terza stella.
Ecco dunque sferzate su “runner” non perfettamente stirati, sulle posate di acciaio inossidabile fuori moda, sull’entrée servita su un piatto di colore e forma non consoni e così via.
Solitamente il beota, che evita ovviamente di palesarsi con nome e cognome celandosi dietro un nickame tipo “Artusi74” o “JuliaChildsChef”, viene sbugiardato dal gestore che lo ha sgamato dopo le prime due righe e gli consiglia non troppo amabilmente di non farsi vedere mai più.
Ancora peggio è il gourmet da “cooking show” che, folgorato sulla via di Cracco, pontifica a voce alta su tempi di cottura, contrasti di consistenze, temperature, di guanciale o pancetta, di impiattamento – per inciso una delle parole più orrende di sempre –, di temperatura ideale dell’acqua minerale, il tutto scassando gli zebedei di chi vorrebbe semplicemente semplicemente mangiare in pace la scaloppina al limone che ha ordinato.
Ci dovrebbe essere un girone infernale apposito per le avventrici – sì, purtroppo in questa categoria le donne sono in maggioranza – che fanno richieste del tipo “ma la quinoa è biologica al cento per cento” o “sa dirmi se la spremitura dell’olio del pinzimonio è a temperatura controllata ed effettuata secondo i protocolli NASA per il vuoto pneumatico?”. Da notare che la persona in questione a casa mangia cibi processati e low cost della peggior specie.
Ovviamente nell’intimità di casa sua la tapina si nutre di mortadella da 0,65 l’etto e pane in cassetta di polistirolo.
Insopportabili le coppie con il cavaliere che fa l’intenditore girando vorticosamente il vino nel bicchiere prima di ogni sorso provocando un effetto vortice-centrifuga che produce un maelstrom di Barolo o uno tsunami di Vermentino rendendosi ridicolo agli occhi di chiunque, soprattutto a quelli della sua compagna.
Per la cronaca il pellegrino non distingue un merlot da un cabernet.
Chiudiamo con la categoria peggiore: la famigliola con bambini: qui si precipita in un abisso di orrore.
Intendiamoci, la colpa della maleducazione dei frugoletti è interamente colpa dei genitori che permettono loro di fare qualsiasi cosa ovunque.
Presto fatto: i piccoli Attila, mentre papà e mamma – e talvolta pure i nonni – si fanno gli affari loro, scorrazzano tra i tavoli costringendo i camerieri ad evoluzioni circensi per non far cadere i piatti con le pietanze, il tutto emettendo berci che spaventerebbero le scimmie urlatrici.
Se non corrono allora piantano delle rogne tremende perché non mangiano nulla se non pepite di pollo e patatine fritte, difficili da trovare in un locale che serve cucina giavanese.
L’unica cosa che li calma è il tablet, capace di ipnotizzarli come fa il cobra col sorcio; che tristezza.
Come porre rimedio a tutto questo? Semplice: ingaggiare un resident-chef che venga a cucinare a casa e cenare con pochi amici fidati e che soprattutto non lecchino il coltello o non si scaccolino i denti coi rebbi della forchetta.