Pillola di Economia: la guerra delle auto (elettriche)
Umberto Baldo
Immagino non vi sia sfuggito che siamo all’inizio, e forse anche qualcosa di più, di una “guerra” che ha come oggetto le auto elettriche.
Si tratta di una partita che in realtà è molto più ampia, e comprende tutta una serie di produzioni (pannelli solari, metalli ecc.) ma per comodità di comprensione, e soprattutto per la dimensione del mercato, ci limitiamo alle quattro ruote.
Ho sempre sostenuto che, a parte forse qualche tema legato alla fisica, non esistono problematiche così complesse da non poter essere spiegate e comprese anche da un qualsiasi cittadino.
E così cercherò di illustrare, in modo volutamente schematico, quali siano i punti di frizione che oppongono la Cina agli stati Uniti ed all’Europa.
Partendo dalla Cina, che ha raggiunto livelli produttivi mostruosi, e che non riuscendo ad assorbire nell’ambito del mercato interno la iper-produzione delle proprie fabbriche, deve necessariamente cercare di smaltire i propri prodotti a prezzi low cost nei mercati europeo e nord americano.
Il problema è che la Cina attua da anni una sorta di “dumping di Stato”, nel senso che il Governo finanzia le proprie imprese, che grazie appunto al denaro pubblico elargito a piene mani, riescono a produrre e a vendere a prezzi irraggiungibili (nel senso di troppo bassi ovviamente) per le nostre aziende, alterando così la libera concorrenza.
La storia e la teoria economica insegnano che l’unico modo per arginare fenomeni di dumping fra Stati è quello di riequilibrare il prezzo dei prodotti, gravando le merci di dazi così pesanti da rendere meno competitive le merci importate.
E questo è proprio quello che ha deciso la Casa Bianca, cioè di quadruplicare le tariffe sui veicoli elettrici provenienti dalla Cina, con una mossa che ha subito scatenato le ire del Governo di Xi Jinping, ed ha aumentato le pressioni sulla Commissione Europea, che ha avviato un’indagine antidumping nei confronti dei veicoli elettrici cinesi.
Come vi accennavo, oltre a quadruplicare la tariffa sui veicoli elettrici, Washington ha aumentato la tariffa sull’acciaio e sull’alluminio dal 7,5% al 25%; lo stesso ha fatto per le batterie, e per i semiconduttori dal 25% al 50%, che ora si applicherà anche ai pannelli solari e ad alcuni prodotti medici.
Stranamente, data la fase elettorale in corso, la decisione di Biden di gravare le auto cinesi con dazi del 102% non è stata contrastata da Donald Trump, che anzi ha aumentato il carico dichiarando, a proposito della possibile apertura di fabbriche automobilistiche cinesi negli Usa: “Non permetterò che questo accada nel nostro Paese”.
Ad essere onesti, questa “ritorsione daziaria” americana ha più una valenza politica che economica, perché attualmenteil valore in dollari dei veicoli elettrici cinesi importati negli Usa è irrisorio, e non ha raggiunto i 100 milioni di dollari nel 2023. Bazzecole rispetto all’interscambio complessivo Usa-Cina, ma significativo dal punto di vista della denuncia degli “aiuti di Stato” cinesi, che ovviamente Pechino respinge.
E in Europa?
Nel nostro continente la musica è ben diversa, perché da noi quasi un quinto (19,5%) dei veicoli elettrici venduti l’anno scorso è stato prodotto in Cina, e si prevede che quest’anno questa quota possa arrivare ad un quarto (25%).
Logica vorrebbe che, a fronte di questi numeri, la Ue dovrebbe essere ancora più decisa ed accanita degli Usa nell’imporre dazi all’importazione di auto cinesi.
Ed invece non è così, per un serie di fattori, che io da sempre segnalo come sintomi evidenti della intrinseca debolezza dell’Europa comunitaria.
Il primo fattore è che gli Usa, pur essendo uno Stato federale (composto da 50 Stati) ha un’autorità centrale con reali poteri decisori cogenti per tutti, mentre l’Europa è ancora una somma di Stati sovrani, che oltre a tutto giocano fra loro, mi si passi il termine, “ad incularella” in po’ in tutti i campi (sistemi fiscali, concorrenza, ecc.), con procedure decisionali giocoforza lunghe e defatiganti, oltre tutto soggette quasi sempre alla spada di Damocle dell’unanimità.
Il secondo fattore, che io definisco con l’immagine di “Europa dei mercanti” (nel senso che gli interessi commerciali prevalgono sulla politica), sta nel fatto che le più importanti industrie europee, e parlo inevitabilmente di aziende tedesche (Volkswagen, Bmw, Mercedes) hanno stabilimenti produttivi in Cina (magari in joint venture), e di conseguenza, come ha dichiarato il Cancelliere Scholz: “il 50% delle auto elettriche importate dalla Cina proviene da marchi occidentali che producono in quel Paese”.
Tanto per capirci Volkswagen è approdata in Cina nel lontano 1978; ha propri stabilimenti (più di 40) in tutto in Paese, e da quando il Dragone ha aperto il proprio mercato agli occidentali, costituisce una presenza costante.
Da qui la cautela dei tedeschi quando si parla di dazi europei sulle importazioni di auto cinesi, in questo affiancati e supportati ad esempio dagli svedesi, dal momento che Volvo è di proprietà cinese.
Queste perplessità, oserei dire queste divisioni, sono grasso che cola per i Mandarini di Pechino, per i quali lo sbocco sul mercato europeo è fondamentale ed irrinunciabile, come confermato dai numeri forniti dal National Passenger Vehicle Market Information Association, secondo cui nel 2023 la Cina ha esportato nell’Unione Europea il 38% della propria produzione di veicoli elettrici, molto più rispetto ad altre parti del mondo.
Ed il trend dell’export cinese quest’anno è per un ulteriore livello record.
Certo che le preoccupazioni della Germania, finalizzate a salvaguardare le proprie aziende presenti in Cina, e le auto da queste prodotte per il mercato europeo, non possono essere le stesse di altri Paesi, Italia in testa.
E non c’è dubbio che lo tsunami che rischia di abbattersi sul mercato globale sia stato affrontato tardivamente dalla Ue, dove l’auto resta ancora un’industria fondamentale per la tenuta economica. Secondo i dati dell’Acea (l’associazione dei costruttori europei) sono circa 13 milioni i lavoratori europei occupati nell’industria automobilistica (direttamente e indirettamente), il 7% di tutti i posti di lavoro dell’Ue, ed il fatturato dell’Automotive rappresenta oltre l’8% del Pil dell’intera Unione.
E torniamo così ai problemi di fondo della UE, che in questo caso mostrano le consuete fratture e le consuete divisioni; e nella specie non solo Berlino e Stoccolma si oppongono alle ritorsioni “daziarie” verso Pechino (richieste invece da Italia e Francia ad esempio), ma anche il Governo di Budapest, che ha ospitato una tappa del recente tour europeo di Xi Jinping, ha sottolineato la leadership dell’Ungheria nella rivoluzione tecnologica automobilistica, con numerose aziende cinesi che hanno creato fabbriche di auto elettriche e di batterie nel Paese.
Non credo sarà facile uscire da questa situazione in cui parte della Ue vorrebbe seguire gli Usa nelle politiche protezionistiche, mentre i costruttori automobilistici tedeschi sono nettamente contrari.
L’unica cosa certa, al momento, è che il milione di auto prodotte in Italia fortemente voluto dal Governo Meloni resterà il “sogno di una notte di mezza estate”, e che le auto cinesi arriveranno da settembre senza problemi in Italia nelle concessionarie Stellantis (ex Fiat), in virtù della joint venture conclusa con la cinese Leapmotor.
Certo possiamo gridare al tradimento di Taveres e di Stellantis, rivangare giustamente la valanga di soldi che abbiamo dato per decenni ad Agnelli e Company, ma alla fine non serve a nulla.
Forse è il caso di spiegarlo anche al nostro ineffabile Ministro Adolfo Urso che Stellantis ormai non ha più nulla di italiano; forse non ha neanche più nulla di europeo, perché ormai Tavares gioca una competizione a livello globale.
Umberto Baldo