Veneto: dalla Dc alla Lega a Fratelli d’Italia
Umberto Baldo
Forse peccando un po’ di sciovinismo, ho deciso di chiudere questa “settimana elettorale” ritornando a dare un’occhiata a quanto successo nel nostro Veneto.
Eviterò di tediarvi con la solita sfilza di numeri, perché della marcia trionfale di Fratelli d’Italia (37%) alle europee, il triplo della Lega, e del conseguente ridimensionamento del Carroccio, ve ne avevo già parlato a “caldo” lunedì scorso.
Successo che, per la verità, non si è ripetuto con quelle dimensioni alle elezioni amministrative che si sono svolte in contemporanea in 309 Comuni, di cui 24 sopra i 15mila abitanti.
Nei Comuni il risultato è stato ben diverso, ed è comunque curioso rilevare che uno stesso elettore, nello stesso momento, abbia espresso due giudizi diversi; premiando politicamente Giorgia Meloni, ma dal punto di vista amministrativo votando spesso e volentieri per Sindaci della Lega.
Questa apparente contraddizione deriva in realtà dallo scarso peso nel territorio dei Fratelli d’Italia rispetto agli alleati leghisti.
Ma in fondo questa carenza di classe dirigente scontata da FdI in Veneto è analoga a quella che la Premier deve affrontare a livello nazionale per certe posizioni.
Non è la prima volta che lo segnalo. D’altronde la sinistra, e analogamente la Lega al Nord, hanno avuto a disposizione decenni per formare una classe dirigente, tempo che è invece mancato alla destra, da sempre all’opposizione.
E solo questione di tempo ed esperienza, e se il popolo italiano consentirà (cosa non scontata nella Repubblica di Pulcinella) agli uomini della Meloni di governare per un certo periodo di tempo, impareranno anche loro (in fondo in Veneto si dice che: col tempo se fa anche e sùche!).
Tornando al Veneto, mi hanno impressionato alcuni dati proprio della Provincia di Vicenza, uno dei tradizionali “granai” della Liga in Veneto.
E così a ZermeghedoGiorgia Meloni è al 41% (Lega al 14%), ad Arzignano, nel distretto della concia, al 42% , a Thiene, dove nel 2007 si impose un monocolore leghista, ora Fdi svetta col 37,68%.
Potrei continuare, perché risultati analoghi si riscontrano pressoché ovunque nella Regione.
Ma vi avevo detto che avrei dato “pochi numeri”, anche perché se siete appassionati di tabelle e raffronti potete sempre consultare il sito del Ministero dell’Interno “Eligendo”, che ho trovato di qualità eccellente.
Guardando questi dati del 2024, non ho potuto non osservare che noi veneti siamo passati dalla fine della guerra a tre “grandi amori”, mi sia consentita questa semplificazione; prima la Democrazia Cristiana, poi la Lega, e ora sembrerebbe la volta di Fratelli d’Italia.
In tutti i casi gratificando la prima forza politica “di turno” di un consenso elettorale assai elevato.
I politologi, sempre alla ricerca (d’altronde è il loro mestiere) di dare una spiegazione ai fenomeni politici, e di conseguenza elettorali, hanno spesso parlato di Veneto come “laboratorio politico” (anche se in realtà per me è un’espressione abusata, che può andare bene in molte altre realtà territoriali).
Io credo che più che di “laboratorio”, relativamente al Veneto si possa parlare di una “cultura territoriale”, che fino agli anni ’80 del secolo scorso si identificava con il “bianco”, ossia con lo scudocrociato della Dc.
In altre paroleper decenni la nostra Regione ha potuto contare su un partito dominante, la Democrazia Cristiana, che ha ricoperto un ruolo di interprete e garante degli interessi locali.
La sua forza era radicata anche grazie all’egemonia esercitata dalla Chiesa Cattolica su gran parte della società veneta.
In Veneto nessun altro partito poteva contare su una base simile di consenso, ma anche di organizzazione territoriale, e su una rete di associazionismo così capillare e diffuso.
Adesso lo rammenta solo chi ha qualche anno sulle spalle, ma il Veneto era allora definito, anche in forma spregiativa, la “Sacrestia d’Italia”.
E guardate che io me lo ricordo quando in certi paesi, ed erano tanti in tutte le provincie, la Dc vinceva le elezioni con percentuali del 50-60, anche del 70%.
Noi che facevamo politica in altri Partiti ci eravamo abituati, ma forse neanche nelle cosiddette “Regioni rosse” il Partito Comunista raggiungeva simili livelli di consenso.
Con la fine della Prima Repubblica e l’incredibile trionfo della Lega, sembrava che il Leone di San Marco potesse tornare a ruggire.
Ma non è stato così. Il Veneto, l’unica regione europea più ricca della Baviera, pagò lo scotto di avere una classe politica locale deludente e priva di spessore.
E la cosa non cambiò con il passaggio dallo “Scudo crociato” al “Leòn che magna el teròn”; prima con Giancarlo Galan, espressione della galassia Berlusconiana, poi con Luca Zaia, giovane rampante, ma incapace di smarcarsi dalla soffocante egemonia della Lega Lombarda.
Ma gli stessi imprenditori veneti, pur contando su personaggi famosi in tutto il mondo, non riuscirono a dare al Veneto una Rappresentanza nazionale adeguata.
E lo si è visto bene in certi passaggi: per fare un solo esempio quello delle crisi bancarie e delle conseguenti “acquisizioni ad un euro”, che si sono risolte con il trasferimento del risparmio e della finanza veneta fuori regione.
Perché i veneti, crollata la DC, si riversarono in massa sulla Lega?
Da un lato perché sono sempre stati legati alla lingua, alla storia ed all’autonomia della Regione, e ciò consentì ad un Umberto Bossi che parlava apertamente di “patrie”, di “Padania”, di secessione” di sfondare in “Terra di San Marco”.
Dall’altro perché, sempre Bossi, parlava di “Roma ladrona”, e questo era un tema che toccava la sensibilità e il portafoglio di quel ceto medio produttivo di cui la DC veneta aveva raccolto largamente il consenso, ma che era stanco di un sempre più stretto controllo “romano” dopo decenni di grande libertà fiscale.
Pochi se ne ricorderanno, ma una delle menti più lucide fra i politici veneti di allora, Antonio Bisaglia, percepì e capì in anticipo l’”onda leghista” in arrivo.
Capì cioè chiaramente le ragioni culturali e strutturali di quella nuova realtà politica emergente: difesa della storia della Serenissima e della lingua popolare veneta, valore dell’autonomia locale, sofferenza patita per un’imposizione ed un controllo fiscale insopportabile dopo anni di “allegra fiscalità” e, soprattutto, la crescente sfiducia in un Partito, la Dc appunto, forte nel consenso territoriale, ma debole nella rappresentanza governativa centrale, nella quale poter far valere le ragioni del “popolo veneto”.
E come contromisura lanciò l’idea di un’organizzazione su base diversa e “federale” della DC, con la DC veneta che avrebbe potuto assumere le caratteristiche proprie della CSU bavarese, quella con cui Carlo Bernini teneva ottimi rapporti nella persona del Presidente Franz Josef Strauss.
La morte prematura di Bisaglia, e poi il precipitare degli eventi, impedirono ogni sviluppo di questa idea.
E arriviamo alla fine del nostro ragionamento, che si traduce nella domanda: dopo la Dc, dopo la Lega, è arrivato il momento di Fratelli d’Italia di essere il partito di riferimento per i Veneti?
Al di là delle suggestioni derivanti dai numeri ottenuti alle europee dal Partito di Giorgia Meloni, io credo sia un po’ prematuro arrivare a questa conclusione.
Innanzi tutto perché, come abbiamo visto, a FdI serve tempo per costruire una classe dirigente nei territori, mentre la Lega, che considera il Veneto come la propria “linea del Piave”, farà il possibile per difendere le proprie posizioni, finanche le barricate.
C’è poi la variabile Luca Zaia (e della componente più dura della Liga Veneta) che anche se non potrà correre per il terzo mandato, è uno che alle ultime regionali ha conquistato il 77% dei voti dei veneti, e non so quale lista e quale candidato Presidente sia in grado di affrontare a cuor leggero uno scontro diretto con una eventuale “lista Zaia”.
Rimane poi impregiudicato un altro elemento, quello dell’autonomia regionale.
Nel senso che, anche se è vero che in Parlamento FdI sta lealmente facendo passare la legge voluta dalla Lega, il Partito resta culturalmente “centralista”, e certe tensioni prima o poi riemergono, come i fiumi carsici.
E per finire va considerato che, con la fine delle ideologie e l’avvento dei partiti liquidi, gli schemi che andavano bene fino a qualche tempo fa ora sono del tutto obsoleti, per cui diventa impossibile e rischioso dare per scontato qualsiasi livello di consenso raggiunto.
Concludendo, come affermavo all’inizio, non esiste un “modello Veneto”, e quindi credo che difficilmente vedremo in futuro soggetti paragonabili ai partiti di massa (come la Dc o il Pci), che sapevano ancorarsi in maniera forte ai territori e ai vari giacimenti di “capitale sociale”.
Lo tenga sempre presente Giorgia Meloni, perché, come “la calunnia” nel Barbiere di Siviglia, anche “il consenso è un venticello”.
Umberto Baldo