Lupi sull’Altopiano. Io sto con Savino Colpo, malgaro di Conco
Saint Just
Mi ha molto colpito la notizia riportata ieri da Tviweb (https://www.tviweb.it/altopiano-lupi-scatenati-malga-subisce-tre-attacchi-in-una-settimana/) e da altri media, che raccontava la decisione del malgaro Savino Colpo, gestore di una malga privata in quel di Conco, di abbandonare sia pure a malincuore la sua attività agro-pastorale, per ritornare a fare il muratore.
Questo “abbandono” è dovuto ad un anno particolarmente difficile per la montagna vicentina e l’Altopiano di Asiago, a causa della moltiplicazione dei lupi, e della loro crescente aggressività.
Certo non si può pretendere l’eroismo dal gestore di una malga che ha visto due delle sue sei vacche brutalmente divorate, mentre una terza, che aveva portato a casa nel tentativo di salvarla, è stata predata solo qualche giorno dopo.
Guardate, qui non si tratta di essere dalla parte del malgaro o meno, ma credo non sia più possibile eludere, facendo finta che non esista, il problema della crescita incontrollata di orsi, lupi e cinghiali, senza tenere in alcun conto le esigenze di chi abita in quegli habitat o ci lavora.
Nel caso di specie io partirei da un problema; quello che se l’esempio di Savino Colpo fosse seguito da altri operatori del settore agro-pastorale assisteremmo alla scomparsa dei piccoli allevamenti, poco o nulla competitivi, ma più sostenibili, ed in genere più benefici per l’ambiente.
Si determinerebbe così un rinselvatichimento di certi habitat montani, che non tornerebbero ricchi di biodiversità neanche con la proliferazione dei grandi carnivori.
Nei nostri ambienti, inoltre, il grande problema è la perdita di gestione integrata dei territori che ha reso, ad esempio, il suolo più vulnerabile ai rischi idrogeologici, così come ad incendi più o meno dolosi.
Di conseguenza, le superfici pastorali non più utilizzate o mal gestite, con animali allevati quasi sempre non autoctoni, determinerebbe la scomparsa del tipico habitat della montagna.
La pastorizia e l’allevamento allo stato brado rappresentano infatti per definizione un sistema di meta-biodiversità.
In altre parole un pastore o un allevatore in malga non possono produrre in un ambiente degradato.
Queste prospettive a mio avviso rendono sempre più urgente trovare qualche contemperamento fra il mondo ambientalista e quello dei residenti.
Bisogna cioè riuscire a comprendere che non è più tempo di scontri “selvaggi”, è il caso di dirlo, tra sostenitori delle comunità e degli allevatori (o degli agricoltori sui Colli o in pianura), ed i difensori assertivi dei diritti dei predatori e delle specie minacciate.
Bisogna mettere un argine al conflitto esasperato, in alcuni casi ad arte, tra animalisti ed allevatori (ed in generale i residenti), invitando tutti ad una modulazione più sfumata e stratificata di questo dibattito.
A partire dal riconoscimento che la funzione di biodiversità del predatore si realizza solo in un contesto ambientale dove il “domestico” in genere è presenza marginale.
Non è sicuramente questo il contesto fortemente antropizzato delle nostre zone alpine, e in parte di quelle appenniniche, dove si riscontra una sovrapposizione tra aree di presenza del predatore e quelle di allevamento.
In altre parole l’altopiano di Asiago non può essere assimilato ad un parco nordamericano in cui il predatore è davvero animale generatore di biodiversità.
Pretendere che siano la comunità, i residenti, chi in montagna lavora e si guadagna il pane, ad adeguarsi alle esigenze dei lupi e degli orsi non è né giusto né condivisibile.
E ciò anche perché nel contesto italico e mediterraneo il paesaggio ed il territorio sono il prodotto di secolari interazioni tra l’uomo e la natura, e come tali devono essere immaginati, protetti e mantenuti; e laddove uno dei due fattori sovrasti l’altro, allora il rischio è quello di perdere l’identità di quel territorio.
Guardate, io non sono sicuramente né un ambientalista estremo né un 100% animalista, ma altrettanto sicuramente non sono a favore di chi inquina o degrada l’ambiente.
Certo non condivido le teorie di James Lovelock, secondo cui Gaia, la Terra, è un essere vivente, la cui buona salute viene insidiata dalla presenza infettante e distruttiva dell’uomo sulla sua superficie.
Non sono cioè d’accordo con l’idea che l ’uomo sulla Terra sia un intruso, che debba limitare il più possibile la propria presenza e la propria devastante «impronta» (footprint); e che di conseguenza in questo quadro gli orsi e i lupi siano sempre a casa loro, mentre noi uomini invece siamo sempre in casa d’altri.
Non accetto quindi l’atteggiamento “pilatesco” dei nostri politici, che diversamente da altri Paesi (es. la Svezia che in questi giorni ha autorizzato l’abbattimenti di 486 orsi) danno un’interpretazione piuttosto rigida delle Direttive europee, forse condizionati e intimoriti dall’estremismo ambientalista e animalista, a volte inutilmente aggressivo.
Concludendo, io sono assolutamente convinto che gli animali debbano essere rispettati e protetti, e che maltrattare un animale è giusto sia un reato, che forse andrebbe punito più duramente.
Cani abbandonati in autostrada sulla via delle vacanze, cucciolate gettate nei rifiuti, cavalli malnutriti; la cronaca ogni giorno ci offre una casistica infinita di comportamenti che vanno combattuti e sanzionati.
Ma tutto questo si può e si deve fare senza diventare una sorta di “talebani dell’animalismo”.
Bisogna cioè mettere in conto anche circostanze in cui alcune specie di animali non domestici sono nocive e bisogna intervenire.
Se ci sono nutrie che distruggono gli argini di canali e fiumi, stormi di piccioni che devastano i monumenti, lupi che assediano le stalle, cinghiali che in zone circoscritte distruggono i campi, orsi che aggrediscono i turisti, non c’è scelta, e bisogna mettere in campo qualcosa di più di una difesa senza se e senza ma degli animali.
E non può essere una giustificazione la frase che “l’orso, o l’orsa, fa il suo mestiere, quello che gli suggerisce la sua natura, tipo proteggere i cuccioli!”, perché serve equilibrio, e l’equilibrio della vita fra l’uomo e gli animali è fatto anche di questi aspetti, a maggior ragione se si vive in un ambiente fortemente antropizzato com’è l’Italia.
Ecco perché, a mio avviso, anche su temi delicati e sensibili come l’ambientalismo e l’animalismo, bisogna ascoltarsi, per arrivare alla fine a scelte che, come sempre,debbono fondarsi su un approccio non pregiudiziale, capace di tenere dinamicamente in contatto gli estremi delle polemiche, e permettere di articolare soluzioni praticabili e possibili, fuori dal circo delle pressioni mediatiche, delle semplificazioni ideologiche, e degli interessi politici.
Saint Just