10 Ottobre 2024 - 9.40

Lavorare un giorno in meno a parità di stipendio?  Il Bengodi del Campo Largo

Erasmus

A chi non piacerebbe lavorare meno ore continuando a ricevere lo stesso stipendio?

Credo a tutti coloro che lavorano.

E su questo tema, sicuramente confidando negli applausi dei lavoratori, si è sbizzarrita la creatività normativa della nostra “gauche”.

E così, dopo la battaglia sul salario minimo, Fratoianni, Bonelli, Conte e Schlein (non sono della partita Azione+Europa e Italia Viva) hanno presentato una proposta di legge che propone di ridurre l’orario di lavoro dalle attuali 40 ore settimanali fino a 32 ore (8 ore per 4 giorni) mantenendo la stessa retribuzione.

Ma i laeder della gauche sono anche prodighi di spiegazioni per illustrare i vantaggi di questa riforma, che a loro avviso porterebbe benefici per tutti.

Vediamoli questi benefici.

Il primo è che le imprese godrebbero di una maggiore produttività (francamente non so da dove ricavino questa certezza), ed i lavoratori di maggiore tempo libero da dedicare alla vita privata.

Ma a guadagnarci ci sarebbe anche la collettività, perché il maggior tempo libero produrrebbe maggiori consumi nei settori della cultura e dell’intrattenimento, generando “crescita e lavoro”.

Ma in questo nuovo scenario le aziende sarebbero anche portate a farsi concorrenza a colpi di aumenti salariali (francamente non capisco perché), anziché sul contenimento dei costi.

Ne guadagnerebbe anche l’ambiente, perché ci sarebbe meno gente in giro, meno pendolarismo, e quindi meno inquinamento.

Caspita ragazzi, appena ho letto la proposta non ho potuto non pensare al Walhalla, al Paradiso delle vergini, al Paese di Bengodi.

E non ho potuto non farmi queste domande: Ma perché aziende e sindacati non ci hanno pensato da soli?  Perché hanno dovuto aspettare che fosse il “Campo Largo” a svelare questa possibilità di essere tutti più felici a costo zero?

Guardate, non è non capisca che il tema dell’orario di lavoro sia da sempre nel Dna dei progressisti, tanto che il Primo maggio, la giornata dei lavoratori e delle lavoratrici, è legato in primis alle lotte sindacali per la riduzione della giornata lavorativa nella seconda metà dell’Ottocento.

Ma vedete, essendo io sempre diffidente nei confronti dei cosiddetti “pasti gratis”, mi sono chiesto: ma dove sta l’inc…ata?

E vi confesso che, dopo le esperienze del Reddito di cittadinanza, e soprattutto del Superbonus 110%, entrambi provvedimenti presentati come “a costo zero”, e costati alla fine più di 200 miliardi all’Erario,  quest’ultima proposta mi sembra avere le stigmate del “grillismo”.

Oltre a tutto non è certo un’idea del tutto nuova, e chi ha qualche anno sulle spalle dovrebbe ricordare la proposta di Bertinotti di copiare la Francia sulle 35 ore, che portò alla caduta del governo Prodi nel 1998.

Forse memori di quel suicidio politico, Pd, M5s e Avs si tengono lontani da quell’ approccio: vale a dire che senza toccare l’orario normale di lavoro fissato dalla legge italiana a 40 ore settimanali, si limitano a introdurre, per tre anni in via sperimentale, una serie di sgravi contributivi per spingere i contratti collettivi a diminuire l’orario di lavoro, ovviamente senza tagliare gli stipendi.

Tornando al Paese di Bengodi prospettato dalla “gauche”, non va sottaciuto che se imprenditori e sindacati intendessero introdurre la “settimana a quattro giorni”, nulla e nessuno impedirebbe loro di farlo, e gli esperimenti in tal senso di IntesaSanPaolo, Lamborghini e Luxottica stanno lì a testimoniarlo.

Non si capisce quindi perché servano incentivi pubblici, come espressamente previsto nella proposta di legge, che stanzia 275 milioni di euro all’anno per finanziare un taglio dal 30% al 60% dei contributi Inps versati dalle imprese  (50% per le piccole e medie aziende), nel caso attivino contratti che riducano l’orario a parità di stipendio.

Non solo io, ma anche altri osservatori, hanno trovato per lo meno strano che la stessa proposta di legge escluda dalla possibilità di ridurre i giorni di lavoro il settore agricolo ed il lavoro domestico, come peraltro era già avvenuto per la proposta di legge sul “salario minimo”.

Evidentemente il credo progressista impone che braccianti e badanti debbano lavorare tanto ed essere pagati poco.

La prima osservazione che viene in mente è che, vista l’esiguità della previsione di stanziamento, parrebbe che gli stessi promotori avessero qualche dubbio sulla concreta realizzabilità della riforma.

Perché, solo per dare un ordine di grandezza, se tutti i lavoratori dipendenti fossero coperti da contratti di questo tipo, il costo sarebbe di  circa 30 miliardi (tanto per capirci la decontribuzione introdotta dal Governo Meloni, pari a 6/7 punti, costa ben 11 miliardi, che Giorgetti sta ancora cercando).

Auguri, visti i chiari di luna!

Ma dimentico sempre che nell’onirico mondo della sinistra quel che contano sono solo i diritti, e non i numeri del bilancio dello Stato, i quali secondo la loro visione vetero marxiana possono sempre essere sanati con una bella “patrimoniale”.

Restando sempre sulla proposta, così come formulata, si potrebbero fare due ipotesi.

La prima è che i costi (275 milioni) siano sottostimati, e che quindi ci potrebbe essere un’esplosione della spesa dello Stato, tipo Superbonus 110%.

La seconda è che si tratti della classica proposta di tipo “ideologico”, tanto per far vedere che “la sinistra esiste e lotta assieme a noi”, e che i primi a non crederci siano i proponenti, che non ritengono l’idea appetibile per le aziende neppure a fronte di generosi incentivi pubblici. 

A quanto è dato sapere, la proposta di legge è il frutto di una mediazione politica (e per me si vede!), perché Fratoianni puntava a sussidi alle imprese più contenuti, però finanziati da una “patrimoniale”, Conte ad un “referendum” fra i lavoratori, effettivamente previsto ma di cui non si capisce il senso, mentre la Schlein ha voluto alzare la percentuale di sussidi eliminando la patrimoniale.

Concludo soffermandomi un attimo sul “referendum”,che consentirebbe a chi lavora di approvare una riduzione dell’orario da sottoporre all’azienda, perché non se ne capisce l’utilità: se l’azienda non è d’accordo, a che serve un referendum? E se invece lo fosse, perché farlo? 

L’unico risultato reale sarebbe quello di delegittimare i Sindacati, il cui ruolo è appunto quello di negoziare i contratti con la controparte.

Rimane quindi inevasa la domanda delle domande: perché a pagare la riduzione dell’orario di lavoro di un numero limitato di aziende e di lavoratori dovrebbero essere tutti i contribuenti, che continueranno a lavorare 40 ore la settimana, compresi braccianti e badanti?

Attendiamo lumi al riguardo.

Erasmus

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