Elezioni Usa – Super Tuesday: il giorno della verità e il giorno che può cambiare il mondo
Umberto Baldo
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“Rien ve va plus. Les yeux sont faits” dice il croupier prima di lanciare la pallina in quel magico disco rotante che risponde al nome di “roulette”.
E così mentre voi state leggendo queste riflessioni, nella costa est degli Usa (New York per intenderci) si stanno aprendo i seggi (nella costa Ovest mancano ancora tre ore, perché gli Usa hanno 4 fusi orari) dove gli americani che non l’hanno già fatto per corrispondenza si recheranno per votare.
Si potrebbero usare varie immagini per definire questo 5 novembre 2024, tipo “il giorno della civetta”, o “il giorno del giudizio” (ricorrere all’Apocalisse mi sembrerebbe esagerato, anche se…..).
Ma se dovessi riassumere i toni, il clima, le tensioni, di questa campagna elettorale farei mia la domanda che si è posta un visibilmente turbato Barak Obama nel corso di un comizio: “La mia domanda è: da quando tutto questo è diventato ok? Non sto cercando l’applauso. Ma come è possibile spiegare l’assuefazione da parte dei repubblicani a comportamenti che hanno normalizzato la distorsione della realtà, la riduzione sistematica di materie di vitale interesse pubblico in beghe individuali, per poi passare alla demonizzazione dell’altro e all’odio personale?”
In questi mesi me la sono posta anch’io più volte questa domanda, di fronte alle offese personali, alle minacce, alle denigrazioni, alle volgarità, alle assurdità, alle fase news, ai teatrini (lui vestito da spazzino o da friggitore di patatine), con cui il Tycoon ha infarcito i suoi comizi contro la candidata democratica, e pur non trovando una risposta esaustiva, non ho potuto non rilevare che la sostanziale staticità dei sondaggi, delle opinioni e delle intenzioni di voto, in una campagna elettorale in cui è successo davvero di tutto, ci dà la misura di quanto la società americana sia divisa in due blocchi politico-elettorali contrapposti e impermeabili l’uno rispetto all’altro.
Ora siamo all’epilogo (ammesso che, come più volte ventilato da Trump, una sua eventuale sconfitta costituirebbe per lui la prova che le elezioni sono state truccate, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire anche in tema di ordine pubblico), e sicuramente vale la pena di chiedersi cosa farebbe ciascuno dei due candidati una volta eletto.
Partendo da Kamala Harris è plausibile che in politica estera seguirà la linea tradizionale fin qui tracciata da Biden: muso duro contro Putin e la Russia, arma al piede con la Cina; ma in ogni caso minore attenzione nei confronti dell’Europa (nonostante lo pensiamo, non siamo più il centro del mondo!), anche se l’impatto complessivo delle sua eventuale elezione sarebbe per noi sicuramente minore di quello di Trump.
Ma è sul piano interno che la Harris avrebbe le maggiori gatte da pelare.
Dall’economia, dove dovrebbe garantire una certa stabilità in una fase che è comunque di ripresa e di azzeramento dell’inflazione, alla componente nera stanca di essere considerata solo una riserva di voti, alle donne stufe di essere trattate come “fenomeni” anziché come esseri umani, alla classe operaia, contraria alla globalizzazione, che vorrebbe politiche protezionistiche.
Avrà poi il problema di Xi Jinping e della sua ferrea volontà di prendersi Taiwan, dei numerosi Paesi che vedono nei Brics l’opportunità di creare un nuovo ordine mondiale non più dominato dagli Usa, e delle due guerre in atto in Medio Oriente ed in Ucraina, che non si sa più da che parte prenderle per trovare una qualche via d’uscita.
Venendo a Trump, non è che i problemi per lui sarebbero diversi eh, ma sicuramente ad essere diverso sarebbe l’approccio!
A essere onesti è davvero difficile fare previsioni perché, come si sa, il soggetto è estremamente sanguigno ed imprevedibile.
Ma se teniamo presenti i suoi precedenti quattro anni di governo, il dato che emerge è il radicale distacco tra i toni e gli stili comunicativi e la sostanza di politiche che da un lato non si sono discostate dall’impostazione convenzionale del Partito Repubblicano, e dall’altro si sono rivelate azzardate e spesso inefficaci.
Sulla base di quello che ho sentito in campagna elettorale mi aspetterei un intervento nel campo della transizione verde, ovviamente per bloccarla e ridare mano libera all’industria estrattiva; come credo sia quasi sicuro che in materia di immigrazione si possa arrivare ad ondate di rastrellamenti di immigrati illegali e di espulsioni.
Ma è sopratutto in materia di dazi per difendere le merci e le aziende Usa che mi aspetterei le conseguenze più pesanti per le economie europee.
Francamente ritengo anche più che probabile l’abbandono dell’Ucraina, con una pace che comporti mutilazioni territoriali per Kiev, ma questo è un problema che a mio avviso riguarderebbe anche Kamala Harris, se eletta, perché ormai moltissimi americani sono contrari alla politica di aiuti massicci a Kiev (come avvenne a suo tempo con il Vietnam).
Dopo di che a mio avviso si aprirà il capitolo della narrazione che dovrebbe interessare più specificamente noi europei.
Trump avrà una sorta di obbligo di emancipazione, più volte da lui ribadito, che riguarda il capitolo Nato.
Che le sue minacce di uscire dall’Allenza Atlantica si concretizzeranno o meno (ed io propendo per il no) non è poi così importante; nel senso che in ogni caso noi europei, se non vorremo essere inghiottiti dai Brics economicamente e politicamente, saremo costretti a spendere una marea di soldi in armamenti di cui oggi non abbiamo neppure l’idea.
Io sono fra coloro che scrivono da anni che prima o dopo ci saremmo trovati di fronte alla responsabilità di gestire direttamente, e finanziariamente, la nostra difesa.
Se lo faremo ancora con la Nato, oppure con un costituendo esercito europeo, alla fine non farà molta differenza; ma alla faccia dei pacifisti da salotto, dei marciatori con le bandiere arcobaleno, del Vaticano (che comunque fa il suo mestiere), della gauche caviar, dell’Anpi, e di tutti coloro che credono di risolvere i problemi del mondo riempiendosi la bocca con la parola “Pace”, sarà inevitabile spendere negli anni a venire come minimo il 2,5% del Pil, se non il 3, per comprare o costruire armi, e per dotarci di tutto ciò che occorre per restare vivi e pacifici di fronte ad un mondo dominato da autocrati che non rispettano più la sovranità degli Stati, e che usano la minaccia della bomba atomica 24 ore su 24.
Aggiungo che sarà anche il caso di pensare a qualche forma di addestramento militare delle giovani generazioni; non dico come Israele o la Korea del Nord, ma come la neutrale Svizzera potrebbe andare.
Questi sono solo alcuni dei problemi che avremo di fronte da stanotte, da quando chiuderanno i primi seggi a New York, anche se, a meno di soprese eclatanti, per conoscere il risultato bisognerà aspettare un po’ di tempo, forse anche più dei quattro giorni che furono necessari per decretare il nuovo inquilino alla Casa Bianca nel 2020, specie se la gara resterà un testa a testa nei sette Swing States, gli Stati in bilico, decisivi per il verdetto.
Resta il fatto che le due Americhe che usciranno dalle urne, una vittoriosa ed una frustrata, resteranno due Americhe fra loro separate che si detestano cordialmente, ma non c’è alcun dubbio che entrambe determineranno il nostro futuro, quello delle nostre economie e delle nostre industrie, e della nostra sicurezza.
Ecco perché è arrivato il momento per noi europei, e penso all’Unione Europea, di prendere in mano il nostro destino; perché l’ombrello americano finisce qui.
Il problema è che, a mio avviso, non tutti sembrano aver realizzato che solo il “blocco Europeo”, con una politica estera ed una difesa comune, potrà giocarsela alla pari con Usa, Cina, Russia, India, Brics.
E chi immagina approcci bilaterali (come Orbàn o i nostri Conte e Salvini) credetemi sono solo degli illusi.
Umberto Baldo