27 Dicembre 2024 - 9.13

Cibo e parolacce: una appetitosa accoppiata

Umberto Baldo

Relativamente al mio articolo di oggi “cibo e parolacce . Una appetitosa accoppiata”, segnalo di averne tratto ispirazione da un pezzo del giornalista di Focus Vito Taramella , autore del sito “parolacce.org”.

Ricordate quegli spot di una nota marca di patatine, che quando sono stati lanciati hanno suscitato un mare di polemiche?

Tutte réclame decisamente pregne di allusioni e doppi sensi, c’è poco da fare!

Dal famoso “La patatina tira”, a quelli con Rocco Siffredi che pronuncia la famigerata frase: “Io di patatine ne ho prese tante, gustose, fragranti, non ce la faccio a stare senza… Fidati di uno che le ha provate tutte,……….. è la migliore”.  

Per continuare con il cartellone che ritrae sempre il mitico Rocco che con in mano un sacchetto di patatine accompagnato dallo slogan “Sta sempre dritto. Il pacchetto”.

Per arrivare allo spot della suora in chiesa,  in fila per prendere l’ostia, il Corpo di Cristo. Il sacerdote gliela porge, lei la mette in bocca ed in quell’attimo si sente un sonoro “crunch!”. Possibile che un’ostia faccia un rumore simile, come una chips? Eh no. C’è un’altra consorella in sacrestia che sta mangiando un pacco di patatine. Spot che suscitò polemiche tali da indurre il produttore e modificarlo.

Certo ci si può indignare, anche protestare se si vuole, ma è indubbio che esista da sempre un legame fra alimenti e volgarità, e lo testimonia il fatto che circail 10% dei

nomi legati al sesso deriva da metafore di cibi e vegetali (fica, banana, fava, patata, pisello, ecc.), giocando sul fatto che l’aspetto di certi alimenti evoca quello degli organi genitali.

E così come in matematica si parla di corrispondenza biunivoca, è vero anche il contrario, nel senso che esistono cibi e pietanze della tradizione culinaria italica che vengono indicati con nomi scurrili. 

Non c’è nulla di strano, e per quanto la morale cattolica abbia impregnato e cercato di condizionare i costumi più licenziosi per due millenni, si sa che l’erotismo è una componente fondamentale di noi umani, ed il “popolo minuto” ha sempre cercato di aggirare le rigide norme della Chiesa, magari in modo innocuo, come associare ad un piatto o l’immagine di una zona erogena, o proprietà afrodisiache.

Certo non occorre arrivare alla satira del film “Fracchia la belva umana”, con quella cena da “Gigi el troione” a base di “saltinculo alla mignotta”, “piselli alla mandrillo” e “fagioli alla scureggiona”; ma piatti con chiare allusioni si trovano un po’ in tutte le Regioni italiane.

Qui si parla infatti della cucina popolare, forse anche un po’ volgare; cioè di quei cibi, piatti e vini, entrati nel comune linguaggio con nomi più da postribolo che da focolare domestico. 

Alcuni li usiamo così spesso che ormai profumano di bucato, e nemmeno più ci ricordiamo della loro origine prosaica.

Ne accenno di seguito alcuni, senza avere l’ambizione di elencarli tutti, e specificando che, quanto alle origini, le stesse sono sempre molto vaghe, a volte anche relativamente alla collocazione geografica (nel senso che un certo piatto viene ad esempio rivendicato sia dalla tradizione culinaria romana che da quella napoletana). 

Spaghetti alla puttanesca: si tratta di un primo piatto tipico della cucina napoletana, le cui prime testimonianze risalgono agli inizi del XIX secolo, detto anche semplicemente aulive e chiapparielle (olive e capperi). Per quanto riguarda la sua origine etimologica, [il termine puttanesca] è stato oggetto degli sforzi di immaginazione di molti studiosi, che hanno tentato in ogni modo di trovare la soluzione all’enigma. Alcuni dicono che il nome di questa ricetta derivò, all’inizio del secolo, dal proprietario di una casa di appuntamenti nei Quartieri Spagnoli, che era solito rifocillare i propri ospiti con questo piatto, sfruttandone la rapidità e facilità di preparazione. Altri fanno riferimento agli indumenti intimi delle ragazze della casa che, per attirare e allettare l’occhio del cliente, indossavano probabilmente biancheria di ogni tipo, di colori vistosi e ricca di promettenti trasparenze.

Bìgoli: da baco, vermicello. I bigoli sono una pasta fresca lunga e sottile, a base di farina integrale.  Con il termine bigolo, nel Nord Italia, e nel nostro Veneto,  si designa anche il membro maschile.  Però pronunciato come Bìgolo (accento sulla i), perché in Veneto esiste anche Bigòlo (accento sulla o) per indicare un attrezzo formato da un bastone di legno curvo alle cui estremità si attaccavano due ganci, funzionali al trasporto di acqua, o di latte, o anche di frutta e verdura.

Cazzilli di patate: rappresentano un classico della rosticceria “da strada” palermitana.  Si tratta di crocchette di patate il cui nome deriva dalla loro forma allungata, e lascio a voi il seguito.

Cazzetti d’Angelo:  in questo caso di allusivo c’è ben poco. E’ tutto in chiaro, nel senso che è un tipo di pasta di forma fallica, con tanto di testicoli. Anche in questo caso è difficile ricostruirne origine e provenienza; molti siti li descrivono come originari di Roma, ma non ci metterei la mano sopra. 

Fighette tricolori: escludo rappresentino il contraltare dei cazzetti.  Sono nate come operazione di marketing complementare per celebrare i colori della bandiera italiana.  Inutile dire che questa pasta riproduce nei limiti del possibile, e del lecito, l’anatomia dei genitali femminili.

Gnocchi merda de can: è un piatto tipico della cucina nizzarda, ma si sa che Nizza è stata a lungo parte del regno di Savoia, e quindi soggetta alle influenze dalla cucina ligure. Si tratta di gnocchi verdi con patate, bietole e un uovo (opzionale) a cui si aggiunge un po’ di farina. Sono lunghi circa 6 centimetri, per un paio di diametro; da qui deriva il nome del piatto.  Non mi è mai capitato di mangiarli, ma credo che l’unico problema potrebbe derivarmi proprio dal nome, sicuramente poco “appetitoso”.

Palle del nonno: evitiamo di evirare gli antenati per carità!   Si tratta in realtà di un salame di maiale, originario della zona di Norcia. Immagino non occorra che vi illustri compiutamente le origini del nome, che derivano chiaramente della forma “cadente” dell’insaccato, che assomiglia a quella degli orpelli cui fa riferimento il nome. 

Coglioni di mulo: (altrimenti chiamati mortadella di Campotosto).  Trattasi di un salame di maiale con un cilindro compatto di lardo al centro, ed  è originario appunto della zona di Campotosto (Abruzzo). Il nome ha un’origine simile alla precedente: la forma ricorda i grossi testicoli di un mulo. Vanta oltre cinque secoli di storia.

Zizzona: in dialetto campano, il termine significa “tettona“.    E infatti questa mozzarella è un formaggio extra large tipico della zona di Battipaglia (Salerno): pesa da 1 kg a 15 kg. Trattasi di  una variante della “mozzata” di bufala di Battipaglia, una grossa mozzarella di 5 kg: è chiamata così per il latte che ne fuoriesce una volta tagliata, e soprattutto perché somiglia ad un seno di donna con tanto di capezzolo al centro.

Grattaculi: sono i tanni, spighette che nascono sopra le piante delle zucchine. Di queste piante vengono presi i tanni più teneri, formati da foglie, rametti cavi e steli cui sono ancora attaccati fiori in boccio e zucchine di varie dimensioni. Hanno ha un sapore deciso e amaro, esaltato dalla cottura con olio ed aglio. Sono diffusi nel Lazio e devono il loro appellativo,  “grattaculi”, al fastidio che possono dare al deretano di chi si china a raccoglierli. 

Venendo ad un dessert, in Veneto per indicare una cosa da trattare con tutte le attenzioni si usa dire “delicata come le tète delle muneghe”.  Francamente non so da dove derivi questa particolarità del seno delle religiose, ma così ci tramanda la tradizione.

Ma nella gastronomia esistono veramente le Sise (tette) delle monache: è un dessert tipico  abruzzese prodotto a Guardiagrele, in provincia di Chieti. Sono dolci composti da due strati di pan di spagna, farciti da crema pasticcera. Sono chiamati in questo modo perché la loro forma ricorda quella dei seni femminili.  Ma la particolarità sta nel fatto che invece delle naturali due mammelle, sono 3, e questo fatto è stato spiegato in vari modi: secondo una leggenda, deriva dall’abitudine di alcune suore abruzzesi che inserivano al centro del petto una protuberanza in modo da rendere meno evidenti i loro seni.

Minni di vergini: si potrebbe dire che sono la variante sicula del dessert precedente. Sono infatti un dolce tradizionale di Sambuca di Sicilia (Agrigento), fatto di pasta frolla e con un ripieno di crema di latte ,zuccata, scaglie di cioccolato e cannella. Le minni – strano a dirsi – sono nate nei conventi delle suore di clausura, sicuramente  senza intenti erotici, perché con tutta probabilità ricordano il martirio di Sant’Agata, siciliana uccisa nel 251. Non volendo rinnegare la fede cristiana, Agata fu imprigionata e le fu strappato il seno con le tenaglie, tanto che spesso è raffigurata con i seni recisi disposti su un piatto. 

Poiché le pietanze sono più apprezzate se accompagnate da un buon vino; anche l’enologia si è data da fare per associare ai certi prodotti chiare allusioni sessuali.

E così si producono: il Soffocone di Vincigliata (sì, soffocone è la versione dialettale di fellatio), la Bernarda, il Bricco dell’Uccellone (diversi sommelier lo definiscono scherzosamente come “il vino più desiderato dalle donne”),  lo Scopaio, Il Merlo della TopaNera, il Nero di Troia, il BioNaSegal’Amis d’la barbisa (termine dialettale per la vulva), il Passerina, il Ficaial’Addio cugghiuna.

Alla fine dei nostri ragionamenti, direi che giustamente la dottrina cattolica associa nei peccati capitali sia la lussuria che la gola, e la tradizione, come abbiamo visto, ci ha messo del suo per sublimarne l’accoppiata.

Comunque in questi giorni dell’anno, in cui la tavola la fa da padrona, non fatevi scrupoli, dateci dentro perché “…. del doman non v’è certezza…..”

Umberto Baldo

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