I Referendum della “saudade”, o dell’amarcord
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Umberto Baldo
La Corte Costituzionale, e vi confesso che non ho mai avuto alcun dubbio al riguardo, ha dichiarato l’inammissibilità del Referendum sull’Autonomia differenziata, con la motivazione che «l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari»
La decisione della Corte è stata comunque degna di nota perché va contro un recente parere della Corte di Cassazione che aveva riconosciuto la validità del referendum dopo il pronunciamento della stessa Corte Costituzionale di novembre.
Di per sé questo è un fatto piuttosto inusuale.
Immagino che la bocciatura abbia fatto tirare un sospiro di sollievo alla maggioranza di Centrodestra, perché toglie di mezzo un quesito altamente divisivo e piuttosto indigesto nelle Regioni del Sud, ma contemporaneamente non abbia certo rallegrato il fronte opposto della sinistra, che il referendum aveva promosso.
Il perché è abbastanza intuitivo.
A parte le problematiche cui accennerò più avanti, la Consulta ha fatto saltare lo schema immaginato da Schlein e Compagnia cantante.
Perché era evidente che si voleva fare della stagione referendaria un campo di battaglia contro il Governo, costruendo una “grande armée” della sinistra mettendo insieme meridionalismo, landinismo (i quesiti sul Jobs Act), con uno po’ di diritti (il referendum di Più Europa sulla cittadinanza)
Insomma un bel cocktail in salsa gauchista contro il Governo Meloni.
Anche perché l’unico referendum con qualche speranza di successo, e parliamo di quorum, era proprio quello sull’Autonomia differenziata, il solo in grado di scaldare gli animi di chi non vuole il “Nord dei ricchi contro il Sud dei poveri”.
La logica del “pacchetto”, per chi lo ricorda una invenzione del padre storico dei referendum, il leader radicale Marco Pannella, prevedeva appunto un tema trainante che doveva fare da richiamo agli elettori.
I quali, una volta giunti al seggio, si sarebbero ritrovati con un mazzo di schede di tutti i colori, e, visto che c’erano, magari avrebbero messo qualche croce in più.
Spazzata via l’Autonomia, restano cinque quesiti referendari in tema di lavoro (Jobs act, licenziamenti collettivi, contratti a termine e infortuni sul lavoro, e uno sulla cittadinanza per gli immigrati), e immagino che gli stessi promotori sappiano che sarà molto difficile, se non quasi impossibile, che i referendum ammessi riescano a raggiungere il quorum richiesto per la validità, vale a dire la metà più uno degli elettori aventi diritto al voto.
Vedete, ormai sono anni e anni che vediamo calare progressivamente il numero degli italiani disposti a recarsi alle urne per votare.
Pensate che le cose cambieranno in occasione dei Referendum?
Io credo proprio di no, per il motivo, che in parte ho già accennato, che in un clima di imperante astensionismo, solo un quesito divisivo, percepito come determinante per il futuro del Paese, avrebbe potuto cambiare le cose.
Provo a fare qualche domanda.
I ragazzi che oggi hanno 20 o 25 anni sanno cosa fosse la legge sul Job act, approvata nel 2014?
Sono disposto a scommettere sul no, e quindi credo che questi ragazzi alle urne non ci andranno proprio.
Ma parimenti ci andranno i pensionati, che rappresentano una buona fetta della popolazione, per i quali le regole del mondo del lavoro fanno ormai parte del passato, e sono sicuramente più interessati ad altre tematiche, solo per dirne una la sanità?
Non credo proprio che si agiteranno molto per andare ai saggi!
Ma c’è un altro aspetto che non va trascurato.
Dei cinque referendum sul lavoro, (vale a dire Jobs Act, indennità di licenziamento nelle piccole imprese, contratti di lavoro a termine, responsabilità solidale del committente negli appalti; anche quello sull’abbassamento da 10 a 5 anni per la cittadinanza degli immigrati non credo abbia anch’esso molte speranze), quello oggettivamente più noto è il primo.
Per il semplice motivo che, al di là del sostegno in qualche modo concesso dei Partiti, si tratta del “Referendum” fortemente voluto dalla Cgil.
Non è un mistero che il Job Act, creatura di Matteo Renzi, sia stato sempre percepito dal Sindacato ora guidato da Maurizio Landini come un inaccettabile vulnus ai diritti dei lavoratori.
A nulla conta evidentemente che quella legge, sbandierata da Renzi come un emblema del riformismo del Pd, negli ultimi anni sia stata ampiamente “ritoccata” dalla Magistratura, tanto da essere ormai l’ombra di quella approvata fra le polemiche.
A nulla conta che il tasso di occupazione sia aumentato dal 55,6 per cento (marzo 2015) al 62,4 per cento (novembre 2024), che in numeri assoluti corrisponde a un aumento di oltre 2 milioni di lavoratori.
No, non conta nulla perché, nella saudade degli “anni ‘70 del ‘900”, sembra trattarsi di una rivincita di stampo ideologico su un tema che è diventato un simbolo: l’art 18 dello Statuto dei Lavoratori.
E per una questione di principio, visto che oggettivamente non ci sono state le migliaia di licenziamenti paventati nel 2014, e che tutto sommato pur con numerosi rimaneggiamenti il Job Act ha funzionato, si è disposti a correre il rischio di riportare le lancette dell’orologio politico, e del dibattito pubblico, indietro di un decennio.
Diventa quasi patetico constatare che si pensi alla “bandierina” dell’ articolo 18 proprio nel mentre Donald Trump sta rivoltando il mondo, e le destre stanno vincendo ovunque sulla base di programmi antitetici a quelli delle sinistre.
E almeno a me risulta quasi inconcepibile che Elly Schlein faccia finta di non sapere, e non vedere, che un grosso pezzo del suo stesso Partito non è per l’abrogazione del Job Act.
E badate bene che non si tratta di un pezzo marginale del Pd, ma di deputati e senatori di peso, ancora oggi presenti in Parlamento, che la stagione di Renzi l’hanno vissuta, e quella legge l’hanno convintamente votata.
Certo non faranno le barricate, certo non aderiranno ai Comitati per il No di Italia Viva, ma il proprio disagio lo stanno manifestando apertamente e anche pubblicamente, ed è quindi evidente che non rinunceranno alla loro posizione, per cui molti o voteranno No o non andranno a votare.
Che senso ha riaprire ferite del passato, non ancora rimarginate?
Che senso ha spaccare il Pd per assecondare la Cgil, dato che approvare questo referendum non servirà certo a ridurre il numero dei lavoratori precari in Italia?
Che senso ha per un Partito che si candida alla guida del Paese mettersi contro il mondo produttivo, visto che sia le piccole imprese che le grandi sono accomunate dalle preoccupazioni per una eventuale vittoria del Si?
Sembra chiaro che si tratti di uno scontro di principio, visto che il dibattito a tratti sembra una battaglia di simboli ed identità, dove il Jobs act è stato etichettato fin dall’inizio come una riforma di destra, anche se votato unanimemente dal Pd di Renzi, quello del 40%.
E che non sia una battaglia prettamente sindacale, lo dimostrerebbe il fatto che pare scontata la non partecipazione della Cisl, che ha sempre valutato quella del Job Act come una “grande riforma” sia pure con qualche lacuna, e che pensa che riesumare l’art. 18 con un referendum sia anacronistico e sbagliato.
Cosa farà la Uil al momento non è dato sapere, e personalmente mi auguro che Bombardieri decida di tenersene fuori, soprattutto perché ciò costituirebbe una smentita a coloro che sostengono che la Uil segue pedissequamente tutte le scelte della Cgil.
In definitiva, mi sembra di poter dire che Elly Schlein sperava di mobilitare finalmente il “campo largo” sui referendum “contro la destra, mentre alla fine si ritrova con un “campo piuttosto risicato”.
Certo, avendo a suo tempo deciso di allinearsi a Landini, ora non può certo tirarsi indietro, anche se alla fine sembra che tutto si stia trasformando in una battaglia di nostalgici all’interno della gauche, con poche possibilità di raggiungere il quorum.
Per carità, questa è la democrazia e teniamocela stretta, ma viste le condizioni, forse i soldi per il voto si sarebbero potuti spendere diversamente.
Umberto Baldo