EDITORIALE – Referendum o spot elettorale?
La campagna elettorale sul referendum costituzionale procede senza soste, in un clima di tensione e incertezza.
Uno stillicidio quotidiano, che dura da mesi, e accompagnerà gli italiani fino al prossimo 4 dicembre, quando, esausti, saranno chiamati a esprimere un voto che progressivamente perde il suo valore rispetto al merito delle questioni, per caratterizzarsi sempre più per le sue connotazioni politiche e di giudizio sul Governo e in particolare su Renzi.
La colpa principale di questo scenario è del presidente del Consiglio, che all’inizio ha sbagliato, per sua stessa ammissione, ad attribuire al referendum il peso di determinare la continuazione dell’azione dell’Esecutivo e addirittura il suo personale futuro politico.
Una posizione che Renzi ha poi abiurato con varie dichiarazioni, alle quali è però seguita una sua partecipazione asfissiante in qualsiasi luogo, soprattutto televisivo, per fare campagna a favore dell’approvazione della riforma costituzionale da lui voluta e sostenuta dal Governo.
Anche questo ha esacerbato gli animi e i toni, contraddistinguendosi come una linea impropria per un presidente del Consiglio, e in generale per l’Esecutivo, che per correttezza dovrebbero rimanere super partes rispetto a una decisione di tale portata sulla struttura della Carta Costituzionale.
Nell’infuriare della bagarre politica si registrano comunque due posizioni prevalenti in contrapposizione alle ragioni dei sostenitori della riforma.
Una è quella sostenuta dallo schieramento di opposizione alla coalizione di maggioranza, con principale avversario il Pd, che vede uniti per il NO partiti ed esponenti politici di provenienza e pensieri anche diametralmente opposti, da Forza Italia al Movimento 5 Stelle tra quelli in Parlamento, da Casa Pound ai Centri Sociali, guardando fuori dal Palazzo, fino a Paolo Cirino Pomicino e D’Alema, per indicare due figure di riferimento della Prima e della Seconda Repubblica.
Un’accolita variegata e multiforme, in cui ognuno ha le proprie ragioni e spesso nessuna coincide con quella degli altri.
I promotori per sostenere la riforma insistono prevalentemente, soprattutto in questi giorni, sull’effetto che dovrebbe produrre in termini di taglio dei costi della politica e di snellimento dell’iter legislativo, con l’abbandono della parità tra Camera e Senato, che dovrebbe garantire maggiore governabilità e favorire un allungamento delle legislature.
La parte che riguarda la diminuzione delle spese per la politica, potrebbe vedere d’accordo il Movimento 5 Stelle, ma l’obiezione è che tale intervento è del tutto minimo e insufficiente.
Forza Italia, che già tempo fa sosteneva la necessità di spostare il Paese verso il presidenzialismo, potrebbe invece essere favorevole a un cambiamento che toglie di fatto una Camera e aumenta, seppur indirettamente, il potere del premier.
Anche in questo caso però la proposta viene giudicata inutile da chi ritiene che l’iter delle leggi sarebbe comunque soggetto a lungaggini contrarie al risultato sperato, rimanendo in vita il Senato, seppur con poteri diversi.
Di fatto l’opposizione di entrambe le parti appare perlopiù strumentale e poco di merito, e sembra più finalizzata a indebolire Renzi per arrivare a nuove elezioni.
L’altra grande contrapposizione al premier alloggia in casa sua, nel Pd, di cui è anche segretario.
La posizione di maggiore peso è quella di Bersani e dei suoi sostenitori, che in primo luogo non contestano la riforma in sé, ma il combinato disposto con l’Italicum, la legge elettorale voluta da Renzi, e approvata in Parlamento grazie anche al sostegno di compagini anomale, come Ala di Verdini.
Una delle conseguenze che tale legge potrebbe produrre è infatti la possibile attribuzione della maggioranza in Parlamento, con una sola Camera, a un partito con solo il 25% di consensi al primo turno.
Questa obiezione causa preoccupazioni in uno scenario nazionale e internazionale dove sempre più prendono consensi posizioni populiste e nazionaliste, considerando che questo trend potrebbe alimentarsi nel tempo.
Ha ragione in tal senso chi sostiene che la Costituzione e la Legge elettorale devono avere una proiezione nel lungo termine e in quest’ottica costruire corretti equilibri istituzionali.
Questa riforma e questa legge non sembrano preoccuparsi di possibili derive autoritarie, non certo di Renzi e dell’attuale maggioranza, ma dovute a scenari futuri possibili, considerando le tensioni populiste, a volte autoritarie, che stanno crescendo anche nel nostro Paese e che in altri europei hanno iniziato ad avere consensi rilevanti.
Renzi sul tema ha preso l’impegno a rivedere l’Italicum dopo il referendum, ma questa posizione non soddisfa la minoranza del Pd, che di fatto non si fida del proprio segretario.
Evidentemente nel suo partito ancora risuona quell’“Enrico stai sereno”, che il futuro premier disse all’allora presidente del Consiglio Letta, espressione del suo partito, prima di contribuire a farlo cadere con continue critiche.
Oggi Renzi dichiara il suo sconcerto per il fatto che da quando guida il partito ha sempre ricevuto attacchi interni pesanti, dimenticando gli strali che quotidianamente lui lanciava nel Pd, a partire dalle sue intenzioni di rottamazione.
Insomma, questo caso sembra emblematico per rappresentare il proverbio che “chi semina vento raccoglie tempesta”.
Il problema è che questa tempesta sta sollevando un polverone tale da impedire agli italiani di poter decidere serenamente sul loro futuro.
E questa è la cosa più grave.
Renzi faccia quello che ancora è nelle sue possibilità per diradare la nebbia, dia un segnale concreto di cambiamento sull’Italicum, unisca il partito e porti il Paese al 4 dicembre in un clima più disteso.