27 Marzo 2024 - 12.14

A Vicenza mancano le osterie con Sopressa, Asiago e “porchi”. Sveglia baristi!

di Alessandro Cammarano

Il turista che arriva a Vicenza, ma anche chi nella Città del Palladio viene per affari, si trova di fronte – oltre alle bellezze architettoniche, alle mostre, ai mercatini – ad un’offerta enogastronomica tanto varia quanto impersonale.

Nel corso degli anni, soprattutto in centro – ma oramai il fenomeno è diventato comune anche sui Colli e nei dintorni – si è assistito ad un proliferare di ristorantini e locali sicuramente accattivanti per quanto riguarda l’ubicazione e l’arredo, oltre che per l’indubbia qualità delle materie prime usate e per le carte dei vini fornitissime ma che poco o nulla hanno a che vedere con la città.

In una corsa, per altro piuttosto provinciale, all’omologazione con altre mete turistiche a torto giudicate “modaiole”, Vicenza ha scordato, o forse non ha neppure mai preso in considerazione, di valorizzare quello che con termine abominevole – usandolo mi sto condannando alla dannazione eterna – vengono definite, perlopiù dai gastronomi da cooking show, le “eccellenze del territorio”.

Passeggiando per il centro storico ci si imbatte in una serie di locali che, come si diceva sopra, sono oggettivamente belli ed espongono menù accattivanti … ma in tutto questo dove sta Vicenza?

Sorseggiare un long drink “Palladio” o un cocktail “Rotonda” – i nomi sono di fantasia ma non lontani dalla realtà – seduti al tavolino di un bar fighetto è cosa assai semplice, così come trovare lunghe liste de “i nostri cicchetti” con “Il nostro baccalà mantecato” o “la nostra salsa con i suoi tartufi” quando non ci si imbatte nel “crostone di farro antico lievitato dal forno del commendator Zagaria di Trapani condito con la sua salsina di pomodori del Piennolo e Colatura di alici di Cetara”, magari annaffiando il tutto con un bel calice di bianco marchigiano o di rosso pugliese.

È possibile che i ristoratori vicentini – fa eccezione il Bacalà alla Vicentina preparato secondo il disciplinare della Venerabile Confraternita – non sentano il bisogno di proporre prodotti locali?

Trovare sopressa, Asiago – formaggio oramai conosciuto nel mondo –, un calice di Gambellara e un pezzo di panbiscotto è impossibile; eppure sono convinto che il turista, spesso colto e disposto a spendere, si aspetti esattamente questo.

Possiamo imparare da altre città e da altre mete turistiche? Certamente sì.

In Puglia non ci si sogna neppure di accompagnare l’aperitivo con fastidiosi finger-food tanto graziosi quanto avulsi dalla realtà: a Martina Franca come a Lecce o a Bari con la birretta o col bicchiere di vino arrivano taglieri di capocollo e salame, burrata e taralli, mozzarelline e panzerotti, il tutto a celebrare i fasti alimentari della regione.

Lo stesso avviene in Sicilia dove ogni singola località propone la propria variante di “sfincione” o di arancina-arancino, ai quali si uniscono una marea di specialità veramente tipiche e figlie del territorio.

Senza andare troppo lontano a Venezia i bacari dove si trova il cicchetto col moscardino vicino al mezzo uovo sodo con l’acciughetta e la sarda in saòr sono ancora tantissimi e – soprattutto quelli fuori dei giri del turista medio – quasi sempre davvero interessanti.

A questo punto, dopo tanta “distruttività”, mi permetto di avanzare una modesta proposta, anche un po’ provocatoria e forse un tantino eccessiva.

Perché invece di aprire l’ennesima “spunciotteria gourmet”, con tanto di camerieri selezionati con appositi casting e dunque tutti bellissimi-magrissimi-fighissimi e ampia scelta di bollicine francesi, non si pensa ad aprire un’osteria di quelle “alla vecchia”, pulita ma dall’aria vissuta, gestita da un proprietario non esattamente filiforme e incline, con moderazione, ad allocuzioni che uniscano divinità ad animali da cortile e da una o più signore che ignorino cosa siano il trucco e il parrucchiere ma che servano con cordiale semplicità

Il menù? lo si diceva sopra: Asiago, in tutte le sue stagionature – da quello pressato fresco allo stravecchio –, sopressa con aglio e senza, panbiscotto, paninetti all’olio con pancetta, salame di casa, tartine semplici magari coi funghi dell’Altopiano e formaggio di malga o con il musetto col cren.

Da bere? Ombre di vino, bianco o rosso, di ottima qualità e di produzione locale, servite nei bicchierini “a palletta” e pieni fino all’orlo; il massimo della concessione alla moda potrebbe essere lo spritz bianco.

Difficile? Secondo me no, anche perché il pubblico – ne sono sicuro – apprezzerebbe e finalmente chi viene a visitare la nostra città avrebbe un’alternativa all’uniformazione che al momento la fa da padrona.

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