“Alle 7,35 Papa Francesco è tornato alla casa del padre”

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Umberto Baldo
Questa mattina, lunedì dell’Angelo, come al solito mi sono alzato presto, ho aperto il mio Mac e ho dato una scorsa ai siti delle principali testate nazionali e straniere.
Soliti titoli, solite guerre, soliti dazi, nulla che facesse presagire la notizia che mi è comparsa sullo schermo verso le 9.30: Papa Francesco è morto.
Credetemi che c’è voluto almeno un quarto d’ora perché tutti gli organi di stampa mettessero in prima pagina a caratteri cubitali che il Papa ci ha lasciato.
Onestamente, quando ieri lo avevo visto affacciarsi alla Loggia delle Benedizioni avevo avuto la sensazione di un uomo particolarmente stanco e provato, ma sapevo che Mario Bergoglio era un lottatore per cui ho pensato fossero solo i postumi della malattia.
Piaccia o no, che si sia credenti o meno, che si guardi al Vaticano con deferenza o con scetticismo, una cosa è certa: Papa Francesco ha cambiato la Chiesa Cattolica.
E non si tratta solo di qualche gesto simbolico o di una comunicazione più empatica. Si tratta di un vero cambio di paradigma.
Di che pasta fosse fatto lo si capì subito, quando nel marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio si affacciò dalla loggia di San Pietro e disse «Fratelli e sorelle, buonasera», si avvertì subito che qualcosa era cambiato. Non solo nel protocollo, ma nello spirito. Era il primo Papa gesuita, il primo latino americano, e il primo a scegliere il nome di Francesco, non un dettaglio, ma un manifesto programmatico: povertà, umiltà, riforma. E forse anche rottura.
Ci sarà tempo per riflettere sul pontificato che è spirato con Bergoglio in questa mattina post pasquale, ma credo di poter dire che Papa Francesco non ha toccato in modo formale i dogmi della Chiesa.
Non ha modificato la dottrina sul matrimonio, sul sacerdozio maschile o sulla bioetica.
Ma ha spostato l’attenzione: non più la norma al centro, ma la persona.
È un passaggio epocale, soprattutto per un’istituzione che per secoli ha parlato in termini binari: giusto/sbagliato, peccato/grazia, dentro/fuori.
Con Francesco il confessore diventa più un accompagnatore che un giudice. La misericordia prevale sul rigore. Il giudizio cede il passo alla comprensione. E questo ha generato entusiasmo in molti fedeli, ma anche disagio in molti settori tradizionalisti, che hanno visto in questo spostamento un pericoloso relativismo.
Che incrociò gli strali degli oppositori quando si poneva quella fatidica domanda:”Chi sono io….?”
Il Papa ha fatto della lotta alla povertà uno dei fulcri del suo pontificato. Ma non è solo un tema sociale: è teologico. Francesco ha parlato di una “Chiesa in uscita”, che non si rinchiude nei palazzi vaticani ma che vive nelle periferie, geografiche ed esistenziali. Ha denunciato più volte il “clericalismo”, definendolo “una perversione”. Ha tuonato contro l’idolatria del denaro, contro la “globalizzazione dell’indifferenza”, contro il capitalismo disumano. E lo ha fatto con parole semplici, dirette, spesso scomode.
Non è raro che, parlando di economia, il Papa sembrasse più vicino a un manifesto di ispirazione sociale che ad un’enciclica. Non è un caso che in molti ambienti conservatori, soprattutto negli Stati Uniti, Francesco fosse guardato con diffidenza, se non con ostilità.
Molti lo accusavano di “derive protestanti”, ed alcuni cardinali hanno persino ventilato l’ipotesi di uno “scisma dottrinale”.
Molti si aspettavano da lui una riforma incisiva della Curia romana, il centro del potere ecclesiastico. Ed in parte c’è stata: accorpamenti di dicasteri, razionalizzazione delle funzioni, maggiore trasparenza finanziaria, lotta alla corruzione. Ha messo mano allo IOR, ha promosso audit, ha nominato laici in ruoli chiave, ha dato spazio alle donne, pur senza toccare la questione del sacerdozio femminile.
Ma le resistenze sono state sempre forti. La macchina vaticana è lenta, e spesso ostile al cambiamento. Alcune promesse iniziali sembrano rimaste sulla carta. E il caso Becciu, o le tensioni con l’Ordine di Malta, hanno mostrato quanto sia difficile scardinare certi meccanismi secolari.
Francesco ha dato al pontificato una forte dimensione globale. È stato in luoghi dove nessun Papa era mai andato: Sud Sudan, Iraq, Mongolia. Ha firmato encicliche di ampio respiro come Laudato Si’ e Fratelli Tutti, affrontando temi universali come l’ambiente, la pace, la fratellanza. Ha costruito un dialogo costante con l’Islam, con l’ebraismo, con il mondo laico.
Questo da un lato lo ha reso una figura ascoltata anche al di fuori della Chiesa, ma al tempo stesso, ha accentuato il paradosso: un Papa che parla al Mondo, ma che dentro la Chiesa molti faticano a capirlo e a seguirlo.
Ma è stato un riformatore tenace, che ha spostato l’asse della Chiesa. Forse non abbastanza per i progressisti, forse troppo per i conservatori. Ma abbastanza per cambiare per sempre il volto al papato.
Cosa resterà del pontificato di Francesco? Difficile dirlo. Molto dipenderà dal suo successore. Ma una cosa è certa: dopo Francesco, non sarà più possibile pensare la Chiesa nello stesso modo.
E in un’epoca in cui la religione rischiava di diventare irrilevante, ha riportato la Chiesa al centro del dibattito, magari non sempre come protagonista condivisa, ma certamente come voce necessaria.
Forse, più che cambiare la dottrina, Papa Francesco ha cambiato la percezione della Chiesa nel mondo. E in un tempo in cui la percezione è già realtà, non è un merito da poco.
Da parte mia il ricordo più vivo, più emozionante, del suo pontificato resterà quella sera del 27 marzo 2020 quando solo, sul sagrato della Basilica di San Pietro, la piazza vuota come mai si era vista nella storia, lucida di pioggia, nessun fedele, solo un immenso silenzio, carico di dolore ed emozione.
Passo dopo passo, il Papa si è diretto verso il Crocifisso e lo ha baciato, consegnando così all’Onnipotente l’umanità sofferente.
Un piccolo gesto di un grande uomo, di un grande Pontefice.
Il gesto di Mario Bergoglio, che ha scelto di chiamarsi “Francesco”.
Umberto Baldo