Appunti per il prossimo Papa: tornare indietro non sarà possibile

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI TVIWEB PER RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO
Umberto Baldo
Nella bimillenaria storia della chiesa cattolica due sono i nomi che i Pontefici non avevano mai avuto il coraggio di scegliere: Pietro e Francesco.
Pietro quasi certamente per non arrogarsi il confronto con il primo degli Apostoli, o forse anche per scaramanzia visto che la famosa “Profezia di Malachia” vaticina che l’ultimo Papa porterebbe il nome di “Pietro il Romano” e sarebbe il Pontefice della fine del mondo.
Francesco perché non era facile assumere il nome del santo poverello d’Assisi, il figlio di mercanti che si spogliò di tutto davanti al padre e al vescovo. Francesco, quello che parlava ai lupi e ai passeri, che chiamava fratello il sole e sorella la luna.
Era evidente che non si sarebbe trattato solo di un nome; chiamarsi Francesco sarebbe stato un programma, e nessun Papa aveva mai osato tanto.
Tutto ciò Jorge Mario Bergoglio lo sapeva bene quando, in quella sera romana di marzo del 2013, nella Cappella Sistina, pronunciò quelle parole: «Mi chiamerò Francesco».
Fu un sussulto, uno scarto, uno strappo rispetto a una tradizione millenaria.
Fatte le debite proporzioni, trovo un certo parallelismo fra la chiesa del “Poverello di Assisi” e quella del “Papa venuto dalla fine del mondo”.
In questo mondo che corre troppo veloce, troppo distratto, troppo accecato dal luccichio dell’effimero, dal chiacchiericcio del nulla, dall’arroganza del potere, il “parroco Bergoglio” capiva che serviva un controcanto, un cambio di rotta, uno spartito che sapesse di semplicità e verità.
Si tratta di uno dei paradossi della storia: a volte il più radicale dei gesti rivoluzionario è tornare all’inizio, all’essenza del messaggio, alle radici ed alla purezza del Vangelo.
Ecco perché quel nome, “Francesco” spiazzò un mondo che confondeva il valore con il prezzo, la felicità con i soldi ed il consumo, la fede con l’abitudine.
Papa Francesco è rimasto fedele a quel nome in ogni gesto, in ogni parola, in ogni viaggio.
Nessun “trionfalismo”, nessuna ostentazione; ha rifiutato gli appartamenti pontifici per vivere nella sobrietà della Casa Santa Marta; ha preferito la semplicità delle omelie mattutine alla pomposità dei grandi discorsi curiali; ma soprattutto ha messo al centro della Chiesa quelli che per troppo tempo erano rimasti ai margini: i poveri, i migranti, i dimenticati, gli scartati.
Ritengo che Bergoglio abbia impresso una cesura incolmabile nella Chiesa di Roma, perché chi verrà dopo di lui, inevitabilmente, dovrà fare i conti con questo patrimonio. Non sarà possibile un ritorno alla Chiesa “paludata” dei fasti e dei privilegi. Non sarebbe accettato né dal popolo cristiano né da quella parte del mondo che guarda alla Chiesa come a un punto di riferimento morale. Il rischio sarebbe quello di un clamoroso passo indietro, che verrebbe percepito come un tradimento.
Certo, ogni Papa ha la sua sensibilità, i suoi temi, le sue priorità.
Ma il solco tracciato da Francesco è troppo profondo per essere cancellato. Anche perché gran parte del Collegio cardinalizio che eleggerà il prossimo pontefice è stato scelto da lui. Sono uomini e pastori che, come voleva Francesco “odorano di pecora”, che condividono una certa visione della Chiesa; più missionaria che dottrinale, più evangelica che istituzionale.
Questo non significa che il pontificato di Francesco sia stato privo di contraddizioni, o che abbia raccolto solo consensi.
Tutt’altro, e potrebbe essere che il successore si trovi costretto a mediare per tenere assieme le diverse sensibilità di ordine geopolitico e anche dottrinale che dividono episcopati e popolo di Dio.
E non è detto che nell’immediato futuro in Vaticano non circolino “veleni” come ai tempi della Chiesa Rinascimentale.
Ma il suo ritorno a un cristianesimo “francescano”, fatto di essenzialità, di ascolto e di misericordia, ha rimesso al centro l’autenticità del Vangelo.
Concludendo, la figura del prossimo Papa sarà inevitabilmente confrontata con quella del suo predecessore.
Tutti ricordiamo lo stacco tra l’ostentazione liturgica di Ratzinger e l’umiltà delle forme di Bergoglio.
Abbiamo così riscoperto la dignità del povero perché abbiamo imparato la sua lezione per cui la povertà non è la mancanza di potere, ma il modo più umano e dignitoso di resistergli, soprattutto nel tempo del lusso sfrenato e dei super capitalisti al potere.
Alla fine del suo percorso terreno, mi sento di dire che anche negli agnostici e i non credenti Bergoglio ha instillato la speranza che in fondo avesse ragione lui; e che dentro la morte si possa fare esperienza di grazia.
Umberto Baldo