“Arrestate Natanyahu!” Ma quei giudici sono indipendenti ed imparziali?
Umberto Baldo
Chi mi legge sa che sono uso citare spesso la nota frase tratta dalla “Vita di dodici Cesari” di Svetonio “La moglie di Cesare non deve neppure essere sfiorata dal sospetto”, pronunciata, secondo lo storico romano, dal generale all’atto del ripudio della terza moglie Pompea (che fra l’altro intesseva veramente una tresca con un tal Clodio).
Queste parole del noto condottiero romano vengono da sempre utilizzate per indicare che per occupare certe posizioni nella società bisogna essere veramente al di sopra di ogni sospetto, e quindi non dare adito a pettegolezzi sulla moralità.
Nel caso di un Magistrato, di un Giudice, questo assioma diventa a mio avviso una “conditio sine qua non”.
Della cosiddetta imparzialità del “Giudice” si discute sin dagli albori della civiltà (vi ricordate di Salomone?).
A mio avviso è impossibile per un uomo o una donna spogliarsi del tutto dalle proprie idee o convinzioni nel momento in cui si indossa la toga, ma in generale si tende a pensare che i Magistrati delle corti sopranazionali dovrebbero avere oltre che un background solido, rappresentativo dei sistemi legali mondiali, anche condizioni morali indiscutibili.
In altri termini dovrebbero essere allo stesso tempo “indipendenti” ed “imparziali”, due concetti diversi ma complementari, che però sarebbero indispensabili per rendere la decisione del giudice adeguata alla legge, e adottata senza pressioni o condizionamenti esterni.
Fatta questa premessa, diventa interessante capire chi siano almeno il Presidente della Corte Penale Internazionale (CPI) ed il Pubblico Ministero della stessa, di fatto i due principali attori nel procedimento che ha portato al mandato di cattura contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro delle difesa Yoav Gallant, con l’accusa per entrambi di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.
Prima di entrare nel merito “personale” dei due magistrati, credo sia giusto da parte mia riconoscere che, per come è stata impostata e realizzata, la reazione israeliana ha inevitabilmente finito per coinvolgere, ferire o colpire a morte anche bambini, donne e anziani a Gaza, ossia civili palestinesi, che però devono essere considerati altrettanto innocenti di quelli israeliani massacrati dalla barbarie di Hamas il 7 ottobre.
Il vero problema sta nel fatto che, con ogni evidenza, la Corte si è fatta paladina di questa situazione, ma con una decisione, appunto il mandato di arresto, che essendo del tutto inefficace nella pratica, rischia di rivelarsi un atto “politico”, e perciò fonte soprattutto di polemiche.
A partire dal fatto che per giustificare il mandato si mette sullo stesso piano il primo Ministro di una democrazia, dove i cittadini votano e protestano in libertà (anche contro il loro Governo), ed i Capi di un’Organizzazione terroristica che il 7 ottobre ha compiuto un crimine contro l’umanità senza bisogno che a doverlo certificare sia un Tribunale.
Detta in altre parole diventa sospetto, e difficilmente accettabile, che ci si accanisca con il primo Ministro dell’unica democrazia che, in un arco territoriale che va da Marrakech a Mumbai, è impegnata a non soccombere alla piovra del terrorismo islamico, sostenuto dagli “inturbantati” di Teheran.
Venendo ai protagonisti, il Procuratore Capo (PM) Karim Khan, nato nel 1970 ad Edimburgo, proviene da una famiglia multiculturale. È figlio di un dermatologo pachistano e di un’infermiera britannica. Cresciuto nella corrente musulmana riformista Ahmadiyya, considerata eretica in Pakistan, ha affrontato fin dall’infanzia questioni legate all’identità e alla giustizia.
Khan ha iniziato il suo percorso come consigliere legale presso i Tribunali internazionali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, acquisendo esperienza in casi complessi di diritto penale internazionale. Nel corso della sua carriera, ha rappresentato come difensore anche figure controverse, tra cui Charles Taylor, ex presidente della Liberia, accusato di crimini contro l’umanità.
Una carriera di tutto rispetto, se non che, recentemente, è stato accusato di molestie sessuali da una ex dipendente della CPI, accuse che Khan ha negato con fermezza, definendole parte di una “campagna di disinformazione” contro di lui.
Tuttavia, queste accuse hanno portato l’Istituzione ad avviare un’indagine esterna e indipendente per far luce sulla vicenda (pur senza voler trarre alcuna conclusione, va segnalato che il fratello Imran Ahmed Khan, ex parlamentare conservatore britannico, ha scontato 18 mesi di carcere per aver aggredito sessualmente un quindicenne).
Quest’accusa, che comunque la si veda ha una valenza etica, sarà pure una campagna di disinformazione, come sostiene Karim Khan, ma indubbiamente va ad intaccare il principio della “moglie di Cesare” da cui sono partito.
Relativamente poi all’aspetto politico, qualcuno ha rilevato che sarebbe bastato l’incontro avuto a settembre da Karin Khan con il Presidente della Turchia Erdogan, e quello dell’Autorità nazionale palestinese Abbas, per instillare il dubbio che la Corte avesse un problema di pregiudizio relativamente ad Israele.
Venendo al Presidente della CPI, Nawaf Salam, libanese, è stato eletto a quel ruolo nel febbraio 2021.
Già nel giugno 2015 Salam, allora rappresentante del Libano alle Nazioni Unite, postava sui social questo messaggio rivolto ad Israele: “Un infelice compleanno a te. 48 anni di occupazione”.
Sempre durante il suo mandato come rappresentante libanese presso le Nazioni Unite, Salam ha votato per condannare Israele 210 volte: nei fatti denunce unilaterali allo Stato Ebraico, e carta bianca a Hamas.
Nei suoi discorsiall’Onu, Salam, parlando di “Organizzazioni ebraiche terroristiche”, aveva anche sostenuto che la “suprema leadership sionista” persegue un piano di “pulizia etnica”, e che “per troppo tempo i criminali di guerra di Israele hanno beneficiato dell’impunità”.
Non è che il resto della sua azione politica sia stata poi molto meglio.
Salam si è costantemente schierato con la Repubblica Islamica dell’Iran. Ha votato contro tutte le undici risoluzioni dell’Assemblea generale che condannavano le violazioni del regime iraniano contro il suo popolo.
Ha anche votato contro una risoluzione che chiedeva il rilascio dei prigionieri politici in Bielorussia, unendosi a Cina, Russia, Cuba, Iran, Siria e Corea del nord.
Mentre scoppiava la guerra civile in Siria nell’aprile 2011, Salam usava il suo seggio nel Consiglio di sicurezza per bloccare una dichiarazione che avrebbe condannato il regime siriano per aver attaccato i civili.
Salam ha anche pubblicato sui social le sue lodi per Fidel Castro, definendolo “icona di ribellione e resistenza”.
Da liberale io difendo il diritto di Nawaf Salam di avere proprie idee, e anche di poterle liberamente esprimere.
Ma se per anni hai combattuto l’idea stessa dell’esistenza dello Stato di Israele, permetterai che qualcuno possa dubitare della tua imparzialità quando spicchi un mandato di cattura contro il premier Netanyahu!
E che altri facciano notare che con uno staff di settecento persone (pagate da tutti noi), e un budget annuale di cento milioni di dollari, la Corte ha finora completato solo un processo, quello a Thomas Lubanga, comandante nella guerra civile in Congo”!
Capisco che il mandato di arresto emozioni tutti gli antisemiti (pardon antisionisti come dicono loro) che ormai dilagano in Europa, e faccia la gioia dei nostri Centri sociali, ma chi capisce un po’ di politica si rende conto che proprio quel mandato di arresto allontana piuttosto che avvicinare qualsiasi ipotesi di pace (la tregua è un’altra cosa) in Medio Oriente.
Perché si tratta di un atto politico, non giudiziario, tale da scatenare le reazioni di molti Stati.
E fra questi gli Usa, tanto che trapela che Donald Trump starebbe considerando l’imposizione di sanzioni personali non solo nei confronti del Procuratore Capo Karim Khan e dei Funzionari della CPI, ma anche dei Giudici che hanno approvato il mandato, con possibilità di estenderle anche ai familiari di questi ultimi.
Alla fine dei miei ragionamenti, spero conveniate con me che i conflitti fra Stati si devono risolvere sul piano diplomatico e non giudiziario, e per questo semplice motivo prevedo che, comunque la si veda, il futuro della Corte Penale internazionale dell’Aja non sarà dei più rosei (è infatti possibile che questa decisione porterà alcuni Stati a diminuire o ritirare il loro contributo annuale per la Corte).
Umberto Baldo
PS: evidentemente alla Corte dell’Aja si sono resi conto che la decisione di spiccare i mandati di cattura comincia a scricchiolare, tanto che il portavoce della CPI ha già dichiarato che la Corte sarebbe pronta a revocare i provvedimenti qualora lo Stato di Israele desse corso ad un’indagine approfondita contro Netanyahu e Gallant.