Cambiare nome al Natale?
L’altro giorno, nel mio pezzo titolato “Quello che vediamo oggi è solo un assaggio del mondo che verrà”, avevo fra l’altro individuato nella “cancel culture” una delle cause dello smarrimento che sta caratterizzando la società occidentale nel suo complesso.
Lasciamo per il momento da parte gli Usa, per concentrarci sulla vecchia Europa.
Relativamente alla quale se dovessi sintetizzare in una sola parola il suo attuale status parlerei di continente “stanco”.
E quando si è stanchi si finisce per perdere fiducia, e soprattutto non si riesce più ad immaginare un futuro.
E questa stanchezza non deriva solo da una serie di problemi irrisolti, cui contribuisce senza dubbio la frantumazione in troppe piccole entità statuali.
La stanchezza è diventata con il passare del tempo anche una sorta di ideologia; quella preannunciata cento anni fa dal “Tramonto dell’Occidente”, il libro di Oswald Spengler sulla decadenza dell’Europa per la concorrenza di altre civiltà.
E’ un dato di fatto che da circa un secolo noi europei abbiamo iniziato a guardare indietro, a rimpiangere i fasti del tempo che fu, quello dell’espansione senza limiti a tutte le latitudini, della prevalenza politica militare assoluta, della superiorità tecnologica e industriale.
Senza riuscire a sostituire questa “saudade” con una nuova visione del futuro.
Su questo sentiment diffuso si è abbattuta anche la cosiddetta “cancel culture” che, partita da oltre Atlantico, come sempre succede ha trovato sostenitori ed adepti anche nel vecchio Continente.
Ed in breve, senza un reale approfondimento e dibattito culturale, siamo arrivati all’abbattimento delle statue di Colombo e Churchill all’incriminazione delle opere di Shakespeare, Dante e Omero, dalle accuse alla musica di Mozart alle inquisizioni linguistiche e simboliche di fiabe (povera Biancaneve!) poesie e opere d’arte di ogni tempo.
A quello che Ernesto Galli della Loggia ha magistralmente definito un “delirio suicida”, che sta demolendo l’immagine che l’Occidente ha di se stesso, delegittimandone la memoria e paralizzandone l’azione culturale.
In breve questo approccio ha preso i connotati del cosiddetto “politically correct”, una propaganda che finisce per condizionare pesantemente il dibattito intellettuale e la libertà di espressione.
In altre parole il politicamente corretto è diventato un metodo di censura, che non ho timore di affermare ricorda certe pagine del novecento, dai roghi dei libri nella Germania nazista, alla rivoluzione culturale di Mao con le sue persecuzioni contro i dissidenti.
In questo modo il pantheon della nostra cultura viene sacrificato ad uno spirito dei tempi bacchettone e sanguinario, ostile a qualsiasi “impurità” di un passato del quale si intende celebrare il rogo collettivo.
Ditemi cosa differenzia questi nostri “iconoclasti” fautori della “cancel culture” dai Talebani che hanno demolito a cannonate i Buddha di Bamiyan, o dagli Islamisti che hanno distrutto i tesori archeologici di Palmira?
Badate bene che non è qualche statua abbattuta che mi fa paura; quello nel corso della storia è sempre accaduto!
Bensì il processo al passato, con la decontestualizzazione di azioni, comportamenti e linguaggi propri di un determinato periodo storico, che porta a una “damnatio memoriae” che delegittima la cultura, e genera smarrimento nelle nuove generazioni.
Questa forma di delirio collettivo è come un cancro che sta insinuandosi in tutti i campi, dal cinema dove ad interpretare i duchi inglesi dell’epoca normanna si chiamano attori di colore, al linguaggio dove, per fare un solo esempio, la parola “razza” è diventata tabù, dimenticando che la si trova ancora nell’art. 3 della nostra Costituzione.
Volete un esempio concreto, di questi giorni, di cancel culture?
Basta calarsi nelle dolci colline toscane, nella badia di San Domenico a Fiesole, dove ha sede l’Istituto universitario europeo (European University Institute), un ente di studio e di ricerca finanziato dall’Unione europea, e frequentato ogni anno da studenti che arrivano da tutto il mondo.
L’EUI è presieduto da Renaud Dehousse, di cui nei giorni scorsi l’Agenzia Sir ha reso noto una iniziativa che io giudico, a voler essere buono, piuttosto singolare.
Cosa ha proposto Dehousse?
Di fatto di abolire il Natale.
Perché? vi starete certamente chiedendo.
Per ottemperare, secondo lui, agli “obblighi del Piano di uguaglianza etnica e razziale dell’EUI”.
E per fare ciò, in poche parole, secondo lui occorre eliminare ogni riferimento cristiano alla festa del Natale.
In altri tempi leggendo una tale “pensata” mi sarei immaginato il propugnatore con uno scolapasta in testa circondato da personale biancovestito intento a fargli indossare una camicia senza maniche.
Invece il Professore non solo ne ha parlato, ma sempre secondo l’Agenzia Sir ha messo tutto nero su bianco, chiedendo alla comunità accademica di spremere le meningi per trovare un nome alternativo, un nome che vada bene per tutti, a prescindere dalle religioni e dal fatto di credere in qualche divinità, oppure di essere ateo o agnostico.
Inutile dire che qualche proposta è già arrivata, tipo sostituire il termine Natale con “Festa d’Inverno”.
Ma sembra che il “concorso di idee” sia ancora aperto.
Guardate, io ricordo bene che non è la prima volta che si parla di cambiare il nome delle festività cristiane, e ricordo altrettanto bene le polemiche sul tema cavalcate da Salvini e dalla Lega.
Ma pur non volendomi far coinvolgere in diatribe politiche, non posso esimermi dal dire qualcosa al riguardo.
Partendo da una constatazione, che potrà anche sembrare banale; quella che non ci può essere rispetto per gli altri se manca il rispetto per se stessi.
Provi il direttore Dehousse a chiedere ai Musulmani di non festeggiare la fine del Ramadan, o agli Ebrei di mettere in soffitta le celebrazioni per Yom Kippur, ovviamente per non urtare le sensibilità di noi cristiani o dei seguaci di altre fedi religiose!
Così tanto per vedere come, giustamente a mio avviso, reagirebbero i fedeli dell’Islam o dell’Ebraismo.
Non lo farà mai ovviamente, perché ad essere “inclusivi” per questi maitre a penser dobbiamo essere solo noi europei.
Ma inclusivi per chi, per Dio?
Per gente che quando può dimostra tutto il suo disprezzo per i nostri valori?
La dico senza giri di parole: quando si va in casa d’altri si rispettano le abitudini di chi ci ospita; per cui chi arriva in Europa e si sente disturbato dalle nostre tradizioni cristiane nessuno lo trattiene; torni da dove è venuto a festeggiare le sue feste e ad osservare i suoi riti, non lo rimpiangeremo.
E poi Dehousse mi deve soprattutto dimostrare perché per essere inclusivi e rispettosi delle altre culture sia necessario rinunciare alla nostra identità, alle nostre radici, alle nostre tradizioni millenarie.
Perché Gesù Cristo sarà anche nato in Palestina, ma il Cristianesimo ha trovato la sua terra di elezione in Europa.
E basta percorrerla questa nostra Europa, dalla Bretagna agli Urali, dalla Scandinavia alla Sicilia alla Spagna, per rendersi conto che tutto è intriso di riferimenti profondi a quel Cristianesimo che, si creda o meno, va da duemila anni a braccetto con la storia, la cultura, l’arte e l’architettura europee.
E un uomo di cultura come immagino sia Dehousse dovrebbe saperlo che tutto ciò significa che, al di là delle parole, in Europa il Cristianesimo va ben oltre il mero aspetto religioso.
Di conseguenza caro Dehousse, se troverà interlocutori disposti ad assecondare i suoi “deliri inclusivi”, potrà anche decidere che per l’European University Institute il Natale possa diventare “Festa d’Inverno”.
Ma per quanto mi riguarda, e lo dico da cattolico poco praticante, nessuno potrà impedirmi il 25 dicembre di augurare “Buon Natale”, come facevano i miei nonni, i miei genitori, e prima di loro per oltre duemila anni generazioni e generazioni di europei.
Umberto Baldo