Canti da chiesa: tra Hare Krishna e il Selvaggio West
di Alessandro Cammarano
La musica è elemento essenziale, fin dalle prime comunità cristiane, della liturgia ma non solo: il suono scandisce i tempi della celebrazione religiosa.
È il suono delle campane che richiama i fedeli alla preghiera e dunque l’elemento sonoro precede ed anticipa quello verbale predisponendo il credente a porsi nel giusto stato d’animo.
Il canto poi, unito alla parola, fa il resto, a partire dal Gregoriano, che nato nell’ottavo secolo dall’incontro tra il canto gallicano e quello romano antico – il canto ambrosiano avrebbe bisogno di un saggio a sé – è a tutt’oggi l’espressione musicale “ufficiale” della Chiesa di Roma.
Con l’avvento della polifonia, e dunque del moltiplicarsi delle voci che non cantano più all’unisono e su un’unica linea, la fantasia e la sperimentazione raggiungono vette di inarrivabile invenzione tra contrappunti arditi e sperimentazioni.
I mottetti e le messe arrivano a contare numeri impressionanti di “voci”, vale a dire che singoli o piccoli gruppi di cantori – divisi per registro – eseguono ciascuno un proprio “pezzo” che si unisce a quello degli altri arrivando a vette di incredibile virtuosismo.
Basterebbe ricordare le messe che Domenico e Giovanni Gabrielli composero per la Cappella di San Marco tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, o quello che pochi anni prima aveva fatto Palestrina a Roma, arrivando poi a Thomas Tallis che nell’Inghilterra del ‘500 scrisse il mottetto “spem in alium” a quaranta (quaranta!!!) voci. Bach è una galassia a sé.
Il Concilio Vaticano Secondo – che ha di fatto portato la Chiesa verso il suo popolo come mai era stato nei secoli precedenti, cancellando gran parte dei precetti dettati dalla Controriforma – ha in qualche maniera mortificato, probabilmente in maniera non del tutto volontaria, la musica liturgica con l’idea di “avvicinarla” ai fedeli.
C’è da dire che nelle grandi celebrazioni si cantano ancora il Gregoriano e i grandi capolavori della polifonia dei secoli passati, però il “pop” la fa tristemente da padrone seguendo un concetto egualitaristico che per dare spazio a tutti di fatto mortifica la musica, anche se una lancia va spezzata all’ammirevole passione che anima uomini e donne di tutte le età che costituiscono la miriade di cori parrocchiali a cui dedicano tempo talora anche con risultati di valore.
Spaventati dal discorso accademico-serioso? Niente paura, quello che seguirà, ovvero un’analisi spietata e scorretta di ciò che si strimpella in chiesa da una cinquantina d’anni a questa parte, riporterà tutto sui consueti binari.
Negli anni Sessanta del secolo scorso fu il Gen Rosso – nato esattamente nel 1966 e gemmato poi nel Gen Verde e ispirato agli insegnamenti di Chiara Lubich – a sdoganare, per altro con certa qual competenza musicale, le chitarre e le percussioni più fantasiose; da lì in avanti il baratro.
A frequentare le celebrazioni domenicali si possono distinguere una ricca serie di filoni che a loro volta si suddividono in innumerevoli sottocategorie il più delle volte agghiaccianti.
Fu il finto country il primo ad apparire alla proclamazione del Vangelo o a sottolineare gli Alleluia: su tempi elementari si rielaborano gighe del Missouri e quadriglie del Montana capaci di trasformare nello spazio di un battito di ciglia la chiesa in un saloon di frontiera.
Se alla fine del brano il maestro del coro se ne uscisse con un sonoro “Hii-haaa” o “Yeppie ya ye” l’effetto “lo chiamavano Trinità” sarebbe davvero perfetto.
Tremenda anche la produzione pseudo-medievale che “fa tanto francescano” con testi da menestrello e canto accompagnato da pifferetti e cembali vari, tanto che il più delle volte si deborda verso atmosfere fantasy-vichinghe per approdare alla pizzica salentina.
Nel nome dell’ecumenismo non manca anche la produzione ispirata alle sonorità dell’Estremo Oriente, peccato che il povero e impegnatissimo coro di turno finisca per assomigliare a quei gruppi di allegri arancioni che danzano per la strada coi campanelli alle caviglie cantando “Hare Krishna hare hare” fra tamburi e sistri.
Manca solo che alla fine della messa si mettano ad offrire quei biscottini insipidi che sono perfetti per spaccare una vetrina tanto sono duri.
Un capitolo a parte è quello dei preti-soubrette, ovvero di quelli che trasformano la celebrazione eucaristica in un musical: e allora giù di gospel, di peripli dell’altare con la tonaca svolazzante e le braccia per aria, un po’ Cher e un po’ Suor Cristina.
Tutto finisce ovviamente su TikTok collezionando migliaia di like e, per i religiosi più talentuosi, una scrittura per la chiusura della Festa della Salamella di Vergate sul Membro.
Conclusione “colta” durante un incontro tra Paolo VI e Igor Stravinskij il papa chiese al compositore che cosa si sarebbe potuto fare per risollevare le sorti della musica sacra: il compositore, senza esitare, rispose “Santità, ci ridia i castrati”.
È un’iperbole, chiaramente, ma tra gli evirati cantori e Don Sister Act c’è una giusta via di mezzo.
Alessandro Cammarano