16 Febbraio 2024 - 10.20

C’era una volta il sushi a buon prezzo

di Alessandro Cammarano

“Andiamo a mangiare sushi! Ci si sfonda e soprattutto si paga poco!”. Questo da una ventina d’anni a questa parte è il mantra di molti italiani, soprattutto di quelli che fino allo sbarco della cucina nipponica sulle nostre tavole credevano che si trattasse di un cibo mitologico riservato a pochi eletti.

C’è da dire che rispetto alla gastronomia cinese, presente in Italia oramai dagli anni Sessanta del secolo scorso, quella giapponese è arrivata parecchio dopo e si è impadronita del palato degli avventori molto più gradualmente e anche con qualche difficoltà, visto che inizialmente i ristoranti giapponesi – a conduzione davvero nipponica – si contavano sulla punta delle dita e stavano nelle grandi città, prima Roma e a seguire Milano, accomunati dalla caratteristica di essere più esclusivi e costosi di un tre stelle Michelin.

I cinesi invece, con la loro cucina cantonese rivista in modo da solleticare gli italici palati, prosperavano già da tempo e siccome i figli della Grande Muraglia non sono secondi a nessuno in quanto a senso degli affari intuirono che con la cucina giapponese – o meglio con il sushi si potevano fare denari a vagonate.

Da notare che il sushi in Italia, come si accennava sopra, era conosciuto solo perché era il cibo preferito dei newyorkesi fighetti e nevrotici protagonisti dei film di Woody Allen o delle commedie sofisticate tipo “Harry ti presento Sally” ed è stato consacrato da serie come ” Sex and the city”.

Personalmente credo di aver assaggiato il mio primo sushi, accompagnato da sashimi – ovvero dalle fettine microtomiche di pesce crudo – una trentina d’anni in un ristorante londinese dove tutto si pagava al pezzo, con conseguente rischio di doversi fare assumere come lavabacchette perpetuo per poter saldare il conto miliardario.

Nel nostro paese i cinesi capirono abbastanza rapidamente che la formula perfetta per il pubblico locale era sicuramente la formula “all you can eat”, ovvero “con un prezzo fisso ti puoi scofanare qualsiasi cosa finché non scoppi”.

Piccolo excursus semi storico: la formula “all you can eat” nacque negli Stati Uniti durante la Grande Depressione del 1929, periodo non esattamente di vacche grasse e fu perfezionato intorno al 1946, in piena economia post bellica, per permettere alla gente di saziarsi a poco prezzo e spesso con poca qualità.

L’AYCE – acronimo di All you Can Eat – riportato alla cucina giapponese, che non è solo polpettine di riso e pesce crudo ma è legata ad una precisa ritualità stagionale che a noi sfugge, soddisfa sia la voglia di esotico che quella di mangiare a più non posso.

Ma poi si mangia davvero così tanto? A voler analizzare il fenomeno si scopre che è più il “percepito” che non il “reale”, tanto che se si facessero due conti si scoprirebbe che il conto se si mangiasse “à la carte” non sarebbe poi tanto più salato.

Fino a qualche anno fa, diciamo sino alla cesura della vita di tutti i giorni provocata dalla pandemia, la formula AYCE era comunque davvero conveniente e i mega ristoranti-buffet orientali – già, perché insieme ai maki e ai nigiri c’è pure il pollo alle mandorle e il maiale in agrodolce – perché con una media di diciotto-venti euro ci si abbuffava, o si pensava di abbuffarsi, come porchetti.

Adesso non è più così.

Sarà per via dell’inflazione, ma i prezzi degli AYCE giappocinesi sono lievitati quanto un raviolo di riso.

Per carità, rispetto a quelli primitivi, poco più che stanzoni, generalmente in mezzo ai capannoni di qualche zona industriale a ridosso delle città, adesso si parla di ambienti che vanno dal confortevole al raffinato.

Arredamenti gradevoli, dimensioni non più così dispersive, proposte gastronomiche spesso accattivanti.

Il prezzo medio, però raggiunge – soprattutto nel fine settimana – senza difficoltà i trenta euro a testa bevande escluse, dunque non poi così tanto meno di un ristorante “normale”.

Il servizio poi è andato peggiorando, spesso il personale spesso si esprime in italiano claudicante e anzi talvolta non è neppure in grado di comunicare.

I piatti – ovviamente si ordina sempre di più di quello che si è in grado di mangiare – in più di unì occasione arrivano tripli o quadrupli, vere legioni di California Rolls gamberetti e Philadelphia – giapponesi quanto me – che si accavallano ad involtini primavera e a colline di riso saltato con pollo e anacardi.

Alla fine della cena– i più coraggiosi proseguiranno in discoteca – parecchio simile a quelle organizzate dalla buonanima di Trimalchione arriva il conto e ci si accorge che la spesa pro capite si aggira tranquillamente intorno ai quaranta euro, biscotto della fortuna incluso.

Non sarebbe stato più conveniente, e forse anche un pel più sano, scegliere un ristorantino che serva una buona cucina, magari pure rivisitata, fatta di prodotti locali? Con una discreta bottiglia di vino e un dolcino tentatore?

“Eh, ma tre giri de bigoi no riesso”, mentre “Quarantatré maki, che i xè picoi, no me acòrso gnanca e poi el sushi xe figo”: contenti loro …

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