Cleopatra era bianca o nera?
Nel febbraio 2021, commentando l’uscita su Netflix della serie Bridgerton, in un pezzo titolato “Serie TV – La regina di colore e le manipolazioni storiche insensate del color-blind casting”, scrissi che il colore ambrato della pelle dell’attrice anglo-guyanese Golda Rosheuvel, che impersonava la Regina d’Inghilterra, ed anche quella chiaramente scura del duca di Hastings, miglior partito della Londra di re Giorgio, impersonato con indiscutibile prestanza dall’ attore anglo-zinbabweano Regè-Jean page, mi avevano piuttosto sconcertato.
Saranno anche ubbie, incrostazioni culturali di un vecchio “eurocentrico”, ma quando ho visto quei personaggi, e non erano i soli, non vi nascondo che sono rimasto alquanto perplesso, perché non riuscivo veramente ad immaginare che il Duca di Hastings (località nota per essere stata il teatro della famosa battaglia che nel 1066 vide lo scontro fra il re d’Inghilterra Aroldo II, anglosassone, ed il Duca di Normandia Guglielmo il Conquistatore) potesse avere un colore di pelle diverso dal bianco pallido, tendente al rossiccio, tipico degli inglesi.
Le stesse perplessità si pongono ora che, sempre Netflix, il prossimo10 maggio lancerà la docu-serie Queen Cleopatra, in cui l’ultima erede dei Faraoni d’Egitto è interpretata dall’attrice di colore Adele James di Casualty.
Sono certo che molti di voi staranno pensando: ma che caspita vuoi che ci interessi sapere se Cleopatra era di pelle bianca o nera?
Forse non avete tutti i torti a pensarla così, e quasi sicuramente la versione hollywoodiana del 1963 con Liz Taylor e Richard Burton, che narra la love story fra la regina e Marco Antonio, influenza ancora pesantemente l’immagine che, almeno io, mi sono fatto dell’”ultima dei Tolomei”.
E francamente non mi sono mai sentito vittima della “supremazia bianca interiorizzata con cui Hollywood avrebbe indottrinato generazioni di spettatori”, come sostengono alcuni studiosi, fra cui la regista del docu-film in uscita.
Ma se pensate che la questione sia liquidabile, almeno a livello mediatico, con un’alzata di spalle, vi sbagliate di grosso.
Queen Cleopatrasta dividendo il mondo; la pelle nera della regina nordafricana nella serie di Netflix ha scandalizzato l’Egitto, che punta il dito contro il tentativo di “blackwashing” (termine che indica una pratica dell’industria cinematografica in cui un attore di origine africana ottiene il ruolo di un personaggio storicamente di un’altra etnia) della storia.
In realtà si tratta di polemiche non nuove, anzi piuttosto datate, in quanto l’etnia di Cleopatra è stata a lungo al centro di discussioni accademiche.
E’ indiscusso che la famosa regina egizia fosse di antiche origini macedoni (Tolomeo I° Soter era uno dei generali fedelissimi di Alessandro il Grande, e Cleopatra si chiamava l’unica sorella del grande re Macedone).
E’ pur vero che Cleopatra era lontana otto generazioni da questi antenati tolemaici , ma è anche noto che i Tolomei erano usi sposarsi fra consanguinei, fratelli e sorelle compresi.
Sulla base di questa etnia greco-macedone, messa in dubbio dal docu-film, si è scatenata soprattutto l’ira ed il risentimento degli egiziani.
Come riportato anche da Egypt Indipendent, il docu-film «promuove l’afro-centrismo, un’ideologia guidata da neri americani e neri in Sud America che promuove l’idea del “ritorno in Egitto”, “cacciando a calci” gli egiziani perché hanno “rubato” la loro cultura e la loro storia. L’afro-centrismo afferma che i faraoni e gli antichi egiziani erano neri, e che gli egiziani “bianchi” ne hanno usurpato l’identità».
Ne consegue, secondo il noto l’archeologo ed egittologo Zahi Hawass, che le tesi esposte nel documentario sono una «falsificazione dei fatti», né più né meno.
Hawass, infatti, a sostegno delle sue tesi, afferma che la civiltà nera non ha governato l’Egitto se non nella venticinquesima dinastia, durante l’era del Regno di Kush, cioè alla fine dell’antica civiltà egizia.
E la riprova sta nei templi che contengono disegni di Re egizi; raffigurazioni che mostrano monarchi che colpiscono i loro nemici, a loro volta presentati sempre come africani, nubiani, libici o asiatici, cioè molto diversi dai Faraoni.
Quindi, secondo lui, Netflix starebbe “cercando di creare confusione per diffondere false informazioni».
Qualcuno, non pago della super polemica, ha pensato anche di andare oltre, al punto che un avvocato, Mahmoud al-Semary, ha avviato una causa contro African Queens: Queen Cleopatra, sostenendo che il film di Netflix viola le leggi sui media, e «cancella l’identità egiziana».
La denuncia si basa anche sul rapporto di un pool di archeologi di alto livello secondo i quali Cleopatra aveva inequivocabilmente «la pelle chiara, e non nera».
Il mito di Cleopatra Tèa Filopàtore (questo il nome esatto) è entrato nella storia del Mediterraneo; una sovrana egizia diventata un personaggio che travalica i confini del mondo, anche in virtù della sua vantata “bellezza”.
Alla fine della fiera, è evidente che gli egiziani non digeriscono l’idea di una Cleopatra di colore perché, pur essendo africani, non vogliono essere assimilati ai “neri” che in maggioranza popolano quel continente.
Dall’altra parte è questa la tendenza ormai dominante nel mondo cinematografico, disposto a qualunque forzatura, inesattezza, stravolgimento della realtà storica, pur di rispettare le regole imposte dal regolamento degli Oscar, che arrivano ad elencare le minoranze che devono essere presenti nelle produzioni: “asiatico, ispano/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo dell’Alaska, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, o altre etnie, e in ogni caso che almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori debba provenire da due dei seguenti gruppi sottorappresentati”, cioè: “donne, minoranze razziali, Lgbtq (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer), persone con disabilità cognitive o fisiche, o che siano sordi o con problemi di udito”.
Insomma, per essere “in regola”, e poter così aspirare alla mitica statuetta dorata, è indispensabile che nei film o nelle fiction si parli di donne, di minoranze, di disabilità, di tematiche omosessuali, e che fra i protagonisti queste categorie siano “ben rappresentate”.
Immagino vi sarete accorti che in pieno clima di cancel culture dilagante gli Studios siano sempre più attenti nell’uso millimetrico del predetto “manuale Cencelli dell’inclusione”, e che ormai queste “regole” sono parte integrante di qualsiasi film o fiction, da chiunque prodotto o diretto.
Concludendo, alla fine penso che per me, come sono certo per tutti voi, il colore della pelle di Cleopatra non rivesta poi tutta questa importanza, tanto più che nessuno sarà mai in grado di svelarcelo, per cui credo sia ragionevole come l’attrice Adele James de Casualty abbia liquidato su Twitter la questione: “Se non vi piace il casting, non guardate la serie”.
Umberto Baldo