Coronavirus, non andrà tutto bene: ecco perché
Se c’è un aspetto che in Italia non ci facciamo mai mancare è la retorica.
Una retorica patriottica a volte deprimente, che va dagli “italiani brava gente” alla “solidarietà ed unità nazionale”, allo “stringiamoci a coorte siam pronti alla morte”, al “tricolore e all’inno nazionale”, al “made in Italy”.
Su questa scia, da quando è iniziata la pandemia del coronavirus, sui social, sui terrazzi delle case, sui disegni dei bambini, negli spot televisivi, impazza lo slogan “Andrà tutto bene”.
Una frase declamata spesso come un mantra, sicuramente con l’intento positivo di allontanare i pensieri più cupi, facendo intravvedere che, alla fine di tutto, si potrà tirare un sospiro di sollievo e tornare a sorridere.
Una frase che ci ha sicuramente commossi quando la sentivamo ripetere dagli italiani all’inizio del lock down, che ci ha anche fatto incavolare quando vedevamo i nostri “cugini” del resto dell’Europa quasi snobbare i nostri sforzi di arginare la pandemia, che poi inesorabilmente ha allungato i suoi tentacoli in tutto il continente.
Certo, l’ottimismo è uno strumento emotivo irrinunciabile in momenti di difficoltà come quello attuale, ma può diventare dannoso se, ad un certo punto, non fa i conti con la realtà.
E francamente credo che molti di noi, di fronte a quello che sta succedendo in Italia e nel mondo, comincino ad essere stanchi di questa frase fatta.
Ed a questo punto, di fronte ad un presente pesante, e ad un futuro, a voler essere buoni, incerto, è difficile dire “Andrà tutto bene”.
In primis per rispetto a coloro per i quali già adesso non è andato tutto bene.
Le decine di migliaia che hanno perso la vita, ma anche i loro parenti, che sono mogli, mariti, figlie, figli, nipoti, mamme e padri, che non hanno neanche potuto dare l’ultimo saluto ai loro cari con una cerimonia funebre.
I nostri vecchi, quelli che dopo la tragedia dell’ultima guerra sono stati gli artefici dello sviluppo del nostro Paese, e che stanno morendo a grappoli nelle case di riposo, diventate veri e propri “lebbrosari”.
Quelli che vivono la quarantena con una persona disabile in casa, che non vengono mai menzionati nella comunicazione pubblica, nei media e nelle ordinanze. Quelli che soffrono di depressione, ai quali non basta dire “stai su”, o “stai allegro”, perchè l’isolamento per loro costituisce una sofferenza ulteriore.
Per questi uomini e donne il mantra del “tutto andrà bene”, dei “torneremo a ballare, a cantare e ad abbracciarci” sicuramente suona falso.
Ma anche per tutti gli altri, quelli che grazie al “iorestoacasa” non hanno contratto l’infezione, non è bene continuare a mentire, a fingere di non vedere cosa sta accadendo in questi giorni di navigazione al buio, senza una scialuppa di salvataggio, senza una terra in vista cui approdare.
Meglio dire con chiarezza, senza infingimenti “No, non andrà tutto bene”.
E sarà bene realizzare da subito che la lotta sarà lunga, lunghissima. Ma soprattutto che questi mesi lasceranno macerie, e dopo nulla sarà più lo stesso.
C’è anche chi non la pensa così. Massimo Cacciari, il filosofo veneziano che in un’intervista ha espresso questo pensiero: “«Non cambierà niente. La maggioranza della gente spera di tornare a vivere come prima e altri sperano, come prima, di vivere un po’ meglio. Pensare come se questa fosse la terza guerra mondiale è un’idiozia. Non ne posso più della retorica dei carrarmati nelle strade, degli inni di Mameli e via blaterando. Da questa crisi usciranno il rafforzamento dei grandi imperi e contraddizioni sociali ancora più accentuate del passato, ma che saranno quelle del passato. Prima non le sapevamo affrontare e ancora meno le sapremo affrontare ora»
In parte condivido questa analisi per quanto attiene il nostro Paese, dopo le tante promesse disattese post eventi disastrosi, tipo alluvioni terremoti. Ma anche relativamente ad altri Stati. La crisi economica del 2008, ad esempio, che colpì il benessere delle economie sviluppate, scatenò una gara di buone intenzioni ed impegni a cambiare le regole della finanza mondiale, che in gran parte sono andati a vuoto.
Ma c’è un elemento che forse Cacciari non ha ben considerato.
Questa non è una crisi come le altre. Non è una crisi bancaria, non è una crisi produttiva, non è una crisi politica con strascichi economici.
Questa è una crisi che colpisce nel profondo le certezze di questa nostra umanità, mettendo a nudo le fragilità di tutte le nostre infrastrutture. Questa è una crisi che mette in dubbio il modello che aveva mosso il mondo negli ultimi decenni, quello della globalizzazione, con tutto ciò che ne deriva in termini di delocalizzazioni produttive, di scambi commerciali, di mobilità.
Questa è una crisi che intacca i nostri modelli di vita, mettendo in forse abitudini consolidate, costringendoci a ripiegare nel nostro “particulare”, costretti fra le mura domestiche a fare i conti con una nuova realtà shoccante.
Ecco che il rifugiarsi nel “tutto andrà bene”, magari facendo risuonare sui balconi l’aria della Turandot “Vincerò” diventa quasi un “esorcismo” collettivo.
Ma che, diciamoci la verità”, non allontana certi pensieri meno ottimisti, e inevitabilmente, mentre nei condomini risuona l’inno nazionale, buona parte di noi comincia a chiedersi: “ma ce la raccontano giusta gli uomini di Governo quando dichiarano che nessuno perderà il posto di lavoro e che torneremo ad abbracciarci?”.
Perchè non occorre essere super economisti per capire che la produzione subirà un crollo, che la gente avrà meno soldi in tasca e quindi i consumi caleranno, che certi settori non riusciranno a mantenere gli stessi dipendenti di prima. Non occorre aver studiato a Yale per capire che se ci saranno meno turisti ci sarà meno lavoro per i lavoratori del settore, che se si viaggerà di meno ci saranno esuberi di piloti ed hostess, che se non si potrà andare in spiaggia serviranno meno bagnini.
Ed al riguardo i segnali che arrivano dagli Stati Uniti sulla disoccupazione sono agghiaccianti. Nelle ultime quattro settimane sono stati 22 milioni gli americani che hanno chiesto i sussidi di disoccupazione, una cifra pari a tutti i nuovi posti di lavoro creati in nove anni e mezzo di ripresa dalla crisi del 2009.
Certo, ci piace pensare, l’America non è l’Europa, sia per il mercato del lavoro sia per la tutela sanitaria pubblica.
Vero, ed in questa prima fase tutti i Paesi europei hanno messo in piedi un vero e proprio piano di sostegno economico dei lavoratori in quarantena, e delle imprese costrette alla chiusura.
Ma in un mondo interconnesso com’è quello attuale, e per un Paese come il nostro che trae dall’export buona parte del Pil, è ragionevole pensare che le difficoltà americane, e non solo americane, non influiranno sulla nostra bilancia commerciale?
Per non dire che quelle misure di sostegno economico sociale cui accennavo hanno costi altissimi, tanto che si stima che il rapporto deficit/Pil dal 134% attuale possa arrivare a fine anno al 150/160%.
Certo questo rapporto crescerà anche per gli altri, dalla Francia alla Spagna alla stessa Germania, ma c’è una differenza sostanziale.
Per noi, dati i livelli di spread BTP/Bund, il costo del finanziamento peserà di più rispetto ad esempio alla Spagna, che viaggia a più di cento punti in meno, o alla Francia il cui spread è un quarto del nostro.
Il rischio è quello di uno sconvolgimento dell’economia e di assetti sociali consolidati. Con centinaia di migliaia di persone che potrebbero perdere il posto di lavoro, e con contraccolpi durissimi che colpiranno soprattutto le fasce più esposte e più deboli della popolazione, c’è il rischio che alla fine la crisi possa diventare anche “sociale”, e si tratta di preoccupazioni già emerse da certe dichiarazioni del Ministro dell’Interno.
Un vecchio detto recita “piove sempre sul bagnato”, per indicare che le cose vanno sempre peggio per chi sta già male.
Questa emergenza ha messo a nudo la fragilità di un “sistema Italia” di cui eravamo tutto sommato consapevoli, ma per troppo tempo abbiamo confidato nello “stellone” e nella inesauribile fede nella capacità di cavarcela, se non per merito, per fortuna. Un piccolo essere, un virus particolarmente aggressivo, sta drammaticamente mostrando che i nodi arrivano sempre al pettine, e che la retorica, gli slogan, non bastano per governare un Paese, specie se in difficoltà.
Perchè, lo ripeto, non andrà tutto bene, anzi!
Molte cose andranno male, e ci vorranno anni di sacrifici e di buona politica per riprenderci.
Molti lo sapevano già, altri lo hanno imparato sulla propria pelle, altri ancora cominciano a sospettarlo.
Certo c’è ancora qualcuno che preferisce esorcizzare il problema, cantando “Volare” o scrivendo “Andrà tutto bene”.
Per concludere, io credo che gli italiani abbiano la forza per risalire la china, e sono sicuro che dimostreranno ancora una volta che nelle difficoltà sanno dare il meglio di sé, meglio se la politica finalmente smetterà di litigare per fare quelle riforme che il Paese attende da decenni, e che sono indispensabili per voltare finalmente pagina.
Basta sapere che la battaglia è solo all’inizio, che sarà lunga, e quindi è bene abituarsi da subito a immaginare il futuro, perchè la morte o la paura non abbiano l’ultima parola.