30 Luglio 2024 - 11.01

Crisi idrica. La filosofia politica dell’ “Ha da passà ‘a nuttata”

L’associare il tempo d’estate all’acqua è quasi automatico, oserei dire inevitabile. 

Il caldo, il sole, chiamano naturalmente l’acqua, per un bagno rinfrescante fra le onde del mare o in piscina, o una doccia tonificante all’aperto, o anche per una semplice bottiglietta di acqua gelata per dare refrigerio alla gola secca ed al corpo accaldato.

Nella nostra Europa l’acqua, pur avendo sempre avuto un ruolo centrale nella nostra cultura (“Chiare fresche e dolci acque” scriveva Petrarca), in realtà l’abbiamo sempre considerata un bene poco prezioso, per il semplice motivo che alle nostre latitudini è sempre stata piuttosto abbondante.

Certo non tutte le zone dell’Italia potevano godere della stessa quantità di acque, ed il sud ad esempio ha sempre avuto qualche anno particolarmente secco.

Si può essere più o meno negazionisti del clima  (e se non creassero problemi quando c’è da mettere in cantiere qualche opera si potrebbe anche fregarcene di loro), ma sono ormai un dato acquisito i picchi di temperature più alte di sempre nel Mediterraneo,   e sono sotto gli occhi di tutti le foto ed i video che da qualche anno ogni estate arrivano dalla Sicilia (e quest’anno anche dalla Calabria, dalla Puglia, dalla Sardegna),  raccontando una situazione per certi versi antica, ma con rilevanti  elementi di novità.

Di antico c’è l’incapacità di gestire in modo ottimale una risorsa preziosa e sempre più scarsa come l’acqua; con una rete idrica che perde per strada il 50% di quanto finisce nelle tubature, con la penuria di invasi che dovrebbero raccogliere l’acqua piovana da utilizzare nei momenti difficili (anche per le opposizioni degli ambientalisti),  con dighe che non vengono attivate perché mai collaudate, con i pochi impianti di desalinizzazione chiusi per la loro obsolescenza (e si dice anche perché troppo costosi).

Tutto questo ormai lo conosciamo (nel Meridione non riguarda solo il settore idrico), e fa parte della storica incapacità della  politica di far funzionare la nostra amministrazione pubblica.

Ma la novità, il qualcosa di più, sta nel fatto che da qualche anno credo sarebbe opportuno abolire la parola “emergenza”.

Che è l’atto formale con quale il Presidente di una Regione attesta lo stato di crisi, ma che, diciamola tutta, un pezzo di carta è, ed un pezzo di carta resta, che sicuramente non risolve alcun problema.

Parlare di emergenza è fuorviante, perché indica una situazione che può essere superata con un ritorno alla normalità.

Ma i cambiamenti climatici in  atto indicano chiaramente che forse abbiamo superato il punto di non ritorno, e di conseguenza l’approccio deve cambiare, deve essere improntato alla concretezza. 

In altre parole, meno proclami, meno promesse da marinaio, e più interventi diretti.

Quindi l’approccio al problema deve essere pragmatico, e soprattutto deve avere uno sguardo di medio-lungo periodo.

Ma questa esigenza si scontra con i vezzi, con i vizi, più connaturati ai nostri Demostene.

La Repubblica di Pulcinella (ora “a Naaazzzziiiiione”) è un Paese troppo spesso abituato solo a lamentarsi e a piangere le vittime quando ci sono i disastri, piuttosto che lavorare sulla prevenzione.  Accade con l’acqua, ma accade anche con l’ambiente e la sanità.

Ma cosa ci si può aspettare da politicanti che non guardano al di là del proprio naso, che cercano il consenso immediato nel presente piuttosto che guardare al futuro ed alla generazioni che verranno? 

Ma ci rendiamo conto che nel 2024, in una Regione Europea, (fra l’altro una Regione Autonoma) siano ai cittadini approvvigionati con le autobotti?

Tanto per dire, il costo di un approvvigionamento da un’autobotte da 8 milalitri è passato in pochi mesi da 50 a 160 euro (ma si parla anche di 250 euro). 

Nel solo mese di maggio la Regione Sicilia ha finanziato altri 109 mezzi, tra acquisti, conversioni, recuperi di cisterne esistenti, e altrettante richieste sono pendenti. 

Con il conseguente rischio del fiorire dell’illegalità: alcuni organi di stampa hanno riferito che cisterne di privati che vendono acqua di provenienza incerta, e salubrità ancora meno verificata, sono all’ordine del giorno.

E questo business delle autobotti indubbiamente arricchisce qualcuno, e qual qualcuno farà l’impossibile perché le cose restino come stanno.

Come dicevo il problema è annoso, e mia madre che andava in ferie in Sicilia  nella zona di Agrigento negli anni ‘80 mi raccontava che l’acqua era razionata, e già allora veniva distribuita uno o due giorni la settimana.

Poi si lamentano se il racconto della Sicilia in balia delle autobotti, e delle reti idriche inesistenti, sta facendo il giro nel mondo, e se i turisti cominciano ad informarsi, prima di prenotare una vacanza, se avranno o meno l’acqua per farsi una doccia (il razionamento nelle città, Palermo compresa, certo non rassicura!)

Quest’anno l’emergenza  idrica in Sicilia è stataufficialmente dichiarata ad aprilema da allora gli interventi strutturaliportati a termine sono  pochi.

“Ho trovato una struttura commissariale in cui da 20 anni nessuno si occupa di manutenzione e completamento delle dighe (sono 46 in Sicilia, solo 23 funzionanti)», dice il Governatore Renato Schifani, annunciando ulteriori 70 milioni di fondi contro l’emergenza. Nel piano annunciato dovrebbero rientrare 100 nuovi pozzi, l’approdo a Licata della nave cisterna della Marina Militare “Ticino”, e altri due dissalatori a Gela e Trapani. 

Ma Schifani non è un  marziano appena atterrato in Trinacria.  

E’ parte integrante di una classe politica ben consolidata da decenni, il cui fallimento, da Rosario Crocetta (sinistra) a Nello Musumeci (destra) è evidente a tutti, e che dimostra che in Italia, ma al Sud in particolare, è inutile stanziare soldi delle tasse degli italiani se poi non vengono spesi, o peggio sprecati nell’inseguire le emergenze.

Immagino vi stiate chiedendo: ma in altri Paesi Mediterranei, che  ovviamente hanno gli stessi problemi climatici delle nostre Regioni Meridionali come fanno?   Come fanno ad esempio in Israele, o in Spagna, che quanto ad aridità dei territori  superano la Sicilia?

La principale risposta al problema ha un nome; dissalatori, ossia impianti che trasformano l’acqua marina in acqua dolce.

E questa sarebbe la soluzione anche per noi se l’Italia non fosse il Paese dei “No al futuro”.   E lo siamo a tal punto che molte imprese italiane che operano nel settore desalinizzazione lo fanno all’estero.

In Israele gli impianti di Ashkelon, Palmahim, Hadera, Soreq, Ashdod, coprono 

il 35% circa del fabbisogno di acqua potabile, con la prospettiva di arrivare al 70% entro il 2050.  Ma Israele non solo desalinizza, ma ricicla anche l’85% delle acque reflue. 

In Europa al primo posto troviamo la Spagna, con 765 impianti già installati, 2 milioni di m³/giorno, e un programma di costruzione di impianti di dissalazione molto importante che cerca di contrastare la forte crisi idrica presente soprattutto nella zona meridionale del Paese (Andalusia, Melilla, Ceuta, Isole Canarie), in alcune grandi città come Barcellona, dove a El Prat del Llobregat, a pochi km dalla città, è attivo è il più grande impianto in Europa, con 200.000 m³/giorno.

La presenza di dissalatori in Italia non è una novità assoluta: nel nostro Paese esistono impianti la cui realizzazione risale agli anni Novanta, ma se ne  contano anche  già in disuso, come quelli siciliani di Gela, Trapani e Porto Empedocle. 

La maggior parte dei dissalatori oggi presenti in Italia è limitata alle piccole isole (Ustica, Pantelleria, Lampedusa, Linosa), ma si tratta in generale di impianti di piccole e medie dimensioni, una buona parte dei quali fornisce acqua potabile ad hotel e resort.

Perché sono così pochi? 

Ma perché, come accennavo, qui da noi impera la cultura del “NO”, e bastano quattro sfigati in piazza a protestare, per indurre una classe politica interessata solo al consenso momentaneo a bloccare qualsiasi progetto.

Anche questa è una filosofia politica: quella dell’ “Ha da passà  ‘a nuttata”.

A volte mi chiedo come facciano i cittadini di certe Regioni del Sud ad avere lo stomaco di continuare ad andare a votare.

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