Daisy Jones & The Six: it’s only rock’roll…but I like it
Può essere sfuggito a molti, perchè l’offerta streaming delle tante piattaforme è davvero immensa, ma chi ha amato il rock degli anni 70, chi era adolescente in quel decennio di eccessi e soprattutto chi ne ha solo sentito parlare, non può non vedere questo monumento al mito, alla musica, che era anche cultura e stile di vita, di quel tempo irripetibile. Basta andare su Prime Video e recuperarlo nel caso in cui si sia andati a vedere solo le serie più gettonate e pubblicizzate. Ma se ami il rock, non puoi prescindere da Daisy Jones and The Six, la serie tv uscita lo scorso marzo. Le vicende narrate si svolgono tra la Summer of Love californiana del 1967, dove vediamo la protagonista quindicenne scendere sulla Sunset Strip (molto vicino a casa sua da cui sgattaiolava in cerca di avventure) per andare ad ascoltare i Byrds e i Doors, fino a tutti gli anni 70, ripercorrendo le storie che hanno portato allo scioglimento di una band fittizia, tramite un’ intervista effettuata 20 anni dopo.
Raccontare la vita delle rock star può rappresentare un esercizio pericoloso. Bisogna scegliere se privilegiare la leggenda o il privato. Nel caso di Daisy Jones & The Six il taglio preferito non ha bisogno di scendere a compromessi con la realtà dei fatti, perché la band degli Anni Settanta, di cui la serie tratta, è immaginaria. Daisy Jones e Billy Dunne, i due leader del gruppo, non sono mai esistiti. Anche se raccontare il rock degli anni 60 e 70 è come scendere sul terreno dell’epica della musica, gli eroi di allora sono come Ettore e Achille, Ulisse ed Agamennone, nel rock questi eroi furono tanti e indimenticabili, l’Olimpo di Jim Morrison e Grace Slick, di David Crosby e Janis Joplin, dei Led Zeppelin e dei….Fleetwood Mac, a cui i Six assomigliano tanto.
Partiamo dall’antefatto letterario. L’omonimo romanzo del 2019, scritto da Taylor Jenkins Reid, è stato un best seller in America. In Italia un po’ meno anche se è stato pubblicato da poco. Scott Neustadter e Michael H. Weber avevano iniziato a lavorare alla serie con l’obiettivo di iniziare le riprese nella primavera del 2020, ma non avevano fatto i conti con il covid.
Ma se la pandemia ha rinviato il ciak, per gli attori, in particolare a Riley Keough e a Sam Claflin che interpretano le due anime tormentate del gruppo, rispettivamente Daisy Jones e Billy Dunne, è stata un’occasione per imparare a suonare e cantare. Sì, perché Keough e Claflin hanno dovuto imparare l’arte del rock, non solo cantare insieme, ma, di più, misurarsi in un concerto di prova davanti a un pubblico composto dai parenti e amici, ricevendo feedback critici da professionisti del settore (ad esempio Kim Gordon dei Sonic Youth e Bernie Taupin, il paroliere di Elton John). Alla fine sono saliti sul palco con i costumi e hanno suonato come se fossero realmente una band. E durante il lockdown si sono collegati come se fossero in studio di registrazione. Insomma, come utilizzare bene i tempi morti.
In Daisy Jones & The Six il gioco di specchi tra finzione e realtà è totale. Il giorno precedente l’uscita dei primi tre episodi viene pubblicato un album composto dalle canzoni originali che abbiamo ascoltato nella serie. Le undici tracce del disco sono cantate da Riley Keough e Sam Claflin. Aurora, prodotto da Blake Mills con la collaborazione di Jackson Browne, Marcus Mumford e Phoebe Bridgers, nomi di punta della scena musicale rock-folk americana e californiana in particolare, oltre a essere presente nel catalogo Spotify, è disponibile anche su supporto fisico, inclusa, ovviamente, la versione in vinile. Aurora è quindi un album del 2023, quando nella serie è il primo (e unico) disco che Daisy Jones & The Six registrano, al completo, nel 1977. E suoni e colori sono assolutamente Seventies.
E la storia? Due fratelli, Graham – un po’ sfigato con le ragazze – e Billy Dunne, maschio alfa e fratello maggiore bello e dannato abbandonato dal padre e ancora incazzato con lui, decidono di formare una band per uscire dall’anonimato di Pittsburgh. Ad essere precisi è il chitarrista Graham a formare il gruppo con i suoi amici Eddie Roundtree, Warren Rojas e Chuck Loving, quest’ultimo destinato a lasciare i Dunne Brothers per seguire la carriera di dentista. Billy presta alla band la sua voce ma, come è chiaro fin da subito, impone a tutti il suo fascino e il suo magnetismo. I Dunne Brothers cantano Suzie-Q alle feste e sono amati al paesello, ma le loro esibizioni non vanno oltre. Intanto, in una lavanderia automatica, Billy incontra la sua – bellissima – futura moglie, la fotografa Camila Alvarez.
Mentre i Dunne Brothers sognano la grande occasione, molto lontano da Pittsburgh, in California, la giovane Daisy Jones trascorre un’adolescenza complicata e ribelle. Daisy, in lotta con sua ricchissima famiglia di origine, padre assente e madre mortificante, assiste ai mitici concerti dei mostri sacri del rock, Led Zeppelin, Doors, Byrds… compone canzoni e ne fa sentire una, Stumbled on Sublime (Inciampata nel sublime) al suo fidanzato del momento, che gliela ruba per inciderla a suo nome e farne un grande successo. E la scena in cui lei scaraventa in piscina il lestofante è un manifesto per i diritti delle donne. In quei giorni, i Dunne Brothers si trasferiscono a Los Angeles su suggerimento del tour manager Rod Reyes e cambiano nome in The Six, anche se sono solo in cinque (il quinto componente è la tastierista Karen Sirko, appena entrata nel gruppo).
Due storie parallele, quindi, finchè Teddy Price, geniale produttore, ha un’intuizione che farà la differenza. Da una parte ci sono i The Six, reduci da un buon disco d’esordio ma troppo dipendenti dall’estro e dalla follia di Billy, che esagera con alcol e droghe (e, tipico clichè da rockstar, ha incontri molto ravvicinati con le giovani groupies durante il tour) e, ridotto a pezzi, non ha nemmeno il coraggio di presentarsi in ospedale quando nasce sua figlia.
Dall’altra c’è Daisy, costretta a fare la cameriera per vivere e ad elemosinare una stanza dove capita, finchè Simone Jackson, – omosessuale segretamente innamorata di lei che diventerà un’icona della disco music quando incontra l’amore con una newyorkese che la porta nella comunità LGBT della Grande Mela e ne fa una diva -, al momento solo una corista soul molto talentuosa, accetta di ospitarla in casa.
Teddy Price, già mentore dei The Six, capisce che la band, dopo la disintossicazione forzata di Billy, è finita in un buco nero. La nuova canzone Look at Us Now (Honeycomb) è rifiutata dall’etichetta discografica. Teddy, sempre alla ricerca di talenti, sente cantare per la prima volta Daisy in un club e, incantato, si offre di arruolarla. Lei rifiuta. Ed ecco, appunto, l’intuizione, che prende la forma di una proposta di collaborazione. Daisy Jones con i The Six. Daisy Jones, soprattutto, con Billy Dunne. Daisy riscrive la canzone. Billy si incazza e inizia l’amore-odio fra i due. Personalità troppo forti che quando trovano l’intesa sfornano capolavori, ma subito dopo esplodono.
Billy e Daisy, due ego da rock star. Egoisti, ambiziosi e vulnerabili, i protagonisti scoprono le carte. E la serie, circa a metà del percorso, aumenta il ritmo, riuscendo toccando le emozioni dello spettatore. Il primo giorno della sessione di registrazione (prima c’è l’episodio del concerto alle Hawaii, dove Daisy a modo suo si prende il palcoscenico) Billy le racconta di suo padre, fuggito quando lui aveva otto anni. Lei gli rivela di essere finita in prigione per aver scardinato la porta di quella che credeva ancora essere la casa dei suoi genitori, trasferiti altrove senza dirle nulla. Due diseredati, due anime perdute nel liquido del rock’n’roll.
“Non scriviamo di speranza. Scriviamo del perché facciamo cose che ci fanno male e continuiamo a fare anche se non c’è speranza”. Lui incassa le parole di Daisy. Le canzoni su sua moglie, la pazientissima Camila, mascherano un desiderio di perdono e idealizzano la persona che Billy vorrebbe essere. L’articolo successivo su Rolling Stones (la serie è una ricostruzione fedele di un sistema del tutto plausibile) fa deflagrare lo scontro.
Lei mette a nudo Billy, parlando al giornalista del suo passato di dipendenze. Lui fornisce tre elementi per descriverla, amore, lussuria e odio. Troppo simili per funzionare davvero. La loro è una relazione fantasticata e, nei fatti, impossibile. “Ho desiderato questa vita da quando avevo quattordici anni, allora perché siamo così infelici?”, chiede Daisy a Billy nel nono episodio, quando il successo del gruppo è ormai all’apice e gli eventi da qui in avanti non potranno che precipitare. In mezzo, c’è la fuga della protagonista in un’isola della Grecia e il suo matrimonio con un nobile decaduto irlandese, la parte che ci è piaciuta di meno. C’è la caduta di Daisy nella spirale della dipendenza, la cocaina, l’overdose, la ripresa, il tour, gli stadi pieni, il delirio dei fan. E il suo desiderio di stare con Billy, sempre più forte. “Se mi deluderai, fallo con gentilezza”, recita una canzone. Mi sono innamorata diverse volte, ma con lui è stato diverso, dirà alla fine.
La scelta del metodo narrativo è interessante. Daisy Jones & The Six è intervallata dalle interviste ai protagonisti, realizzate in occasione dei vent’anni dallo scioglimento della band (solo nell’ultimo episodio scopriamo chi si nasconde dietro la videocamera e la ragione vera del documentario). Il rimbalzo temporale garantisce respiro e profondità alla serie. Lo sguardo al passato dei sei del gruppo è venato di nostalgia. A volte vince il rimorso per le occasioni mancate, più spesso, però, prevale la gioia del ricordo. Nonostante tutto, le gelosie, le liti, le rotture, le delusioni, per tutti sembra che, in definitiva, ne sia valsa la pena. Il messaggio di Daisy Jones & The Six che ci viene trasmesso è positivo: vivere con fiducia, affrontare con coraggio le stagioni dell’esistenza, darsi una seconda opportunità, non abbandonarsi mai allo sconforto, convincersi che quanto lasciato indietro non è andato perso e perfino il cambiamento di nome, a volte, è un passaggio necessario.
Eddie Roundtree (interpretato da Josh Whitehouse), il bassista, motiva la sua decisione di lasciare il gruppo lamentandosi del poco spazio concesso da Billy agli altri, fin dalla fondazione dei Dunne Brothers. La stessa sensazione è avvertita da noi che vediamo Daisy Jones & The Six. Dimentichiamoci degli Anni Settanta “politici”, del Vietnam, del fermento sociale, della violenza nelle strade, del razzismo, dell’attivismo degli afroamericani. Non c’è spazio per questo. La serie vive del dualismo Daisy/Billy, del tormento di Camila, la Penelope di turno, che tiene insieme fin che può la famiglia dei Six. Riley Keough e Sam Claflin interpretano i propri ruoli con una convinzione fuori dal comune. La loro perfomance immedesimativa, notevole anche sotto l’aspetto artistico (Riley Kough è la nipote di Elvis Presley), intreccia il racconto attorno ai sentimenti privati.
La furia di cui sono capaci due rock star quando si vedono allo specchio, e scoprono l’esistenza di un’anima gemella, brucia tutto. Il resto è ai margini. La relazione tra il chitarrista Graham e la tastierista Karen (gli attori Will Harrison e Suki Waterhouse), nonché l’avventura musicale di Simone Jackson (la cantante e cantautrice Nabiyah Be) nei santuari arcobaleno della disco music di NYC, sono spin off del discorso principale, spunti potenzialmente interessanti ma non sviluppati nell’arco dei dieci episodi. Questo alla fine, dice la storia: due ego smisurati, “più divertenti da perderci che da starci insieme”, lanciati nella folle scommessa del rock’n’roll.
Il romanzo Daisy Jones & The Six, per aperta ammissione dell’autrice Taylor Jenkins Reid, è ispirato alla vita dei componenti dei Fleetwood Mac. Nel 1977 (l’anno di Aurora) la band fondata da Peter Green pubblica Rumours, l’album più apprezzato dalla critica che raggiunge il picco record di 40 milioni di copie vendute. Rumours, ovvero “pettegolezzo”. Le sessioni di registrazione presso il Record Plant di Sausalito, in California, sono caratterizzate da scontri e eccessi di ogni tipo. Il gruppo è attraversato da fortissime tensioni interne: Mick Fleetwood in quel periodo scopre il tradimento della moglie, Christine e John McVie sono sulla via della separazione, la relazione tra Stevie Nicks e Lindsey Buckingham è a pezzi. Buckingham ha scatti d’ira continui nei confronti del produttore, culminati in un’aggressione fisica.
La costume designer poi, merita l’applauso. Denise Wingate ha vestito i personaggi della serie ispirandosi al look dei gruppi dell’epoca. Millecinquecento cambi d’abito complessivi. Mick Fleetwood e i suoi giubbotti, uno degli ispiratori, anche se tutti i batteristi di quell’era vestivano giubbotti. Nella scena finale Eddie indossa un abito bianco in tre pezzi, che ho copiato da una foto scattata a Lindsay Buckingham durante un concerto. Ma i costumi più giusti sono per Daisy. L’abito dorato lavorato all’uncinetto che Daisy indossa nel concerto finale di Chicago è degli anni Trenta. Il resto arriva da una ricerca pignola nei mercatini vintage californiani.
Oltre alle canzoni originali del gruppo, la serie è impreziosita da musica fantastica, inserita dagli autori con precisione filologica. Basterebbe Dancing Barefoot di Patti Smith che apre la sigla di ogni puntata per incuriosirci. Ogni canzone è in sintonia con il mood dei personaggi, contrassegnato di volta in volta da ebrezza, agitazione esistenziale o rabbia.
Costumi, interpreti, dialoghi sceneggiatura da dieci e lode. E poi due attori affiatati per ricamare un duello sulle note dell’amore e della disperazione, con il pepe del triangolo classico tra la donna che ti ossessiona e quella che ti rassicura. Il finale lascia la porta socchiusa ad una reunion dei Six vent’anni dopo. Le fonti ufficiali dicono che non ci sarà la seconda serie, ma i Fleetwood Mac si sono sempre riuniti dopo le loro grandi rotture, perchè non potrebbero i farlo Daisy Jones & The Six, la banda falsa più vera dell’anno? In fondo, come cantava Jagger, it’s only rock’roll, abut I like it.