16 Aprile 2024 - 9.35

Dal Brasile la carica di 300mila nuovi veneti. Quasi trentamila domande, ognuna con 10 richiedenti

Cittadinanza?  Oriundo italo-brasileiro!

Potrebbe sembrare uno scherzo “da doganiere”, ma parliamo in realtà di un allarme migranti che preoccupa non poco il Ministero degli Esteri. 

Ma non pensate ai barconi che partono dall’ Africa o dal Medio Oriente; qui parliamo di italiani (almeno sulla carta!). 

O meglio di milioni di “oriundi” italiani che vivono in Sudamerica, e che in questi ultimi anni stanno richiedendo in massa il riconoscimento della cittadinanza italiana, fra cui spicca ad esempio l’ex Presidente carioca Jair Bolsonaro. 

Ma come è possibile?

Cosa c’è alla base di questo fenomeno? 

C’è il principio dello ius sanguinis, regolato dalla legge n. 91 del 5 febbraio 1992, che prevede che possano acquisire la cittadinanza (anche se sono nati all’estero)  figli, nipoti e pronipoti di cittadini italiani. 

Andando alla radice del problema, si scopre che per diventare italiano basta che un proprio antenato, quindi anche uno dei 16 trisavoli o dei 32 “quadrisavoli”, sia stato cittadino almeno del Regno d’Italia. 

Con un effetto “palla di neve” il fenomeno si ingrossa sempre di più, con picchi in presenza di crisi economiche o sociali, anche perché tutti questi nuovi cittadini generano a loro volta altri italiani.

Vi risparmio le problematiche procedurali, piuttosto complesse e nebulose, che se volete potere trovare in numerosi siti, anche ufficiali (basti dire che i Consolati italiani in Brasile  fissano appuntamenti con i richiedenti addirittura fra undici anni).

Io mi limito alle dimensioni di questa naturalizzazione italica di sudamericani, e, tanto per fare qualche numero, presso il solo Tribunale di Venezia al 31 marzo scorso, dunque dopo nemmeno due anni dalla riforma che ha “regionalizzato” la competenza a decidere, risultano 16.663 nuove iscrizioni, e 13.239 fascicoli pendenti.

Ma questi numeri non dicono tutto, perché dietro ogni richiesta si celano intere famiglie, fino a 10-15 persone, che portano a stimare fra i  100 ed i 150mila i  richiedenti la cittadinanza. 

Con tutto quel che ne consegue nel Belpaese, dove nel 2020 si sono scoperte vere e proprie Organizzazioni dedite alle truffe ai danni dei questi “oriundi”.

Nell’ imbrogliare ed aggirare le leggi noi italiani siamo insuperabili!

Come funzionava la truffa?

Poiché secondo lo ius sanguinis la discendenza va dimostrata per mezzo degli atti di stato civile (nascita, matrimonio e morte), e siccome di solito i richiedenti la cittadinanza non parlano una parola d’italiano, i truffatori si offrivano di accompagnarli fisicamente agli sportelli anagrafe del Comune di riferimento, muniti di una documentazione che attestasse la discendenza italiana e la residenza nel nostro Paese. Un servizio completo a prezzi modici di circa 7mila euro.  Peccato che le carte fossero tutte false.

Poiché l’emigrazione verso il Brasile ha interessato in particolar modo il bellunese,  i sindaci dei Comuni più colpiti dai falsari,   riferivano che per ottenere i documenti necessari, i “consulenti” di solito andavano nelle parrocchie   (e persino nei cimiteri) per   cercare di recuperare i dati degli antenati italiani, veri o presunti, la maggior parte dei quali partita per il Paese sudamericano a fine 800.

Ma perché tutta questa voglia dei brasiliani di avere anche la cittadinanza ed il passaporto del Belpaese?

Può essere che ci sia qualcuno che la desidera anche per ragioni sentimentali, ma per il resto si tratta di meri interessi economici.

Già, perché con il passaporto italiano non solo è possibile per i brasiliani raggiungere mete ancora più ambite, come il ricco nord Europa, ma in questo modo riescono più agevolmente a entrare negli Stati Uniti e ottenere un permesso di lavoro del tipo E2: ossia un visto per chi vuole intraprendere un’impresa.       Ecco spiegate le ragioni di questo fenomeno di massa. 

Che non va certamente sottovalutato, specialmente nei piccoli Comuni, che rischiano di trovarsi praticamente bloccati ed intasati.

Per limitarsi ad un solo esempio (ma potete moltiplicarlo per buona parte dei Comuni italiani) basta citare Camillo De Pellegrin, il Sindaco di Val di Zoldo (Belluno),  che nello scorso gennaio fu il primo  a lanciare l’allarme, dicendo: «Ci dobbiamo occupare prima delle cittadinanze iure sanguinis e poi dei nostri residenti: questo vuole lo Stato. Potremmo dire che ci troviamo nel Comune di Val di Zoldo del Brasile, Stato del Rio Grande do Sul”

Per ribadire il concetto, di fianco alla bandiera italiana, sul pennone del municipio aveva polemicamente issato quella brasiliana (tanto per dire, i due impiegati dell’ufficio anagrafe in Val di Zoldo, un comune di 2.745 abitanti in provincia di Belluno, sono alle prese  con 551 pratiche arretrate presentate da neo cittadini italiani che vivono in Brasile.

Come vi accennavo, tutto ciò sta allarmando la Farnesina, perché se oltre ai brasiliani si muovessero ad esempio anche gli argentini, dal Sudamerica sarebbero possibili milioni di richieste di cittadinanza, milioni di persone che, pur discendenti di italiani, non hanno più legami  né linguistici né culturali con il nostro Paese, e sono mossi solo dalla crisi economica e dall’instabilità politica.

Che dire?

Come tutti i fenomeni che interessano masse di persone, i problemi sono tanti ma poche le soluzioni, anche alla luce del fatto che inevitabilmente queste “naturalizzazioni” di sudamericani, che comunque hanno sia pure lontane origini italiane, si aggiungono a tutte quelle di soggetti che arrivano clandestinamente sui barconi (non ho timore di usare il termine clandestino perché comunque la si veda questa è per lo più la realtà).

E’ chiaro che, anche in anni di calo demografico, se questo fenomeno dovesse estendersi, interferirebbe inevitabilmente con la composizione del corpo elettorale, e quindi anche dei quorum (perché costoro acquisiscono ovviamente, oltre agli altri diritti, anche quello di voto).

Io credo che una rivisitazione della normativa vigente, probabilmente in senso restrittivo sia indispensabile, partendo dalla questione di costituzionalità della legge, anche in rapporto alla sua compatibilità con il diritto comunitario.

Io non ho dubbi nell’affermare che così com’è la normativa sia “irragionevole”, perché la cittadinanza italiana viene riconosciuta, anche a distanza, sulla base di una verifica meramente cartolare della discendenza, risalente anche a secoli prima, prescindendo dalla verifica di una qualche forma di legame minimale con il nostro Paese, come ad esempio la lingua.

Dubito esistano altri Paesi in cui sia vigente una legge di questa portata.

Qualcuno ha calcolato che la platea di “oriundi” (ricordo che il termine cominciò ad essere usato con riferimento ai calciatori stranieri di lontane di origini italiane) potrebbe essere potenzialmente di 80 milioni di individui.

Ed il nostro Veneto è la prima Regione per numero di emigrati in Sudamerica.

Alla luce di queste problematiche anche a “Palazzo” si comincia a fare un po’ di mente locale, ed infatti è  stato calendarizzato al Senato un disegno di legge, di cui è promotore il meloniano Roberto Menia, che propone di imporre ai richiedenti un limite alla terza generazione, oltre che un livello minimo di conoscenza della lingua italiana.

Sarebbe bene che una volta tanto si trovasse un accordo bipartisan, e non si cominciasse come al solito a dividersi stupidamente e furbescamente  fra i fautori delle “porte aperte” e quelli delle “porte chiuse”.

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