28 Agosto 2022 - 12.01

Draghi scuote il cocuzzaro della mediocrità politica italiana

L’Italia sa essere un Paese autorevole ed è con l’autorevolezza che viene il rispetto degli altri”. 

Lo ha detto il Presidente del Consiglio Mario Draghi al Meeting di Rimini. 

Tenete presente questa affermazione, perché io faccio un passo avanti, ed all’autorevolezza affianco la credibilità. 

In questi tempi di politica urlata, di scontri basati sull’insulto e sulla denigrazione dell’avversario, di campagna elettorale a colpi di tweet e di messaggi sui social, queste potrebbero sembrare sicuramente parole desuete, roba d’altri tempi. 

Ma forse qualcuno dimentica che la politica non fa sconti, non ammette scorciatoie, ed alla fine i nodi vengono sempre al pettine. 

Parlando di autorevolezza di un leader, e nella specie mi riferisco a Giorgia Meloni, prossimo premier in pectore, pensate che Giorgio Almirante, o anche lo stesso Gianfranco Fini, di fronte alla dicotomia che si è venuta a creare fra le esigenze del Paese di avere dei rigassificatori, pena razionamenti e crisi industriali, e la netta opposizione degli abitanti di Piombino, guidati dal sindaco di FdI Francesco Ferrari, avrebbero avuto difficoltà ad imporre una linea politica? 

Assolutamente no, perché appunto erano leader “autorevoli”, la cui parola bastava a ricondurre alla ragione, al supremo interesse nazionale, ed alla linea del Partito, anche le frange legate ad interessi localistici. 

Giorgia Meloni quell’autorevolezza non ce l’ha, inutile girarci attorno, ed infatti a meno di non sbagliarmi non ho letto o sentito una sua netta presa di posizione al riguardo, tanto che il Sindaco dichiara bellamente “che il Partito e la Meloni sono favorevoli ai rigassificatori, ma non a quello di Piombino”. 

E dato che ci siamo, la carenza di autorevolezza all’interno diventa anche mancanza di credibilità all’esterno. 

Non so se la Meloni, forse gasata dai sondaggi, si renda conto appieno di quali e quanti saranno i problemi che dovrà affrontare dopo la sua eventuale ascesa a Palazzo Chigi, dall’aumento dei prezzi dell’energia al quadro geopolitico sempre più preoccupante, ma se immagina di farvi fronte con vecchi politici come Giulio Tremonti farà bene a mettere in conto che per l’Europa della Von Der Leyen e Paolo Gentiloni Tremonti non è una soluzione, ma un ulteriore problema.

Già ci sono chiare avvisaglie di allarme da parte dei mercati, con gli hedge fund pronti a speculare sul nostro debito sovrano, ed ha pienamente ragione Giorgia quando dice che non può essere la finanza internazionale a decidere chi deve governare gli italiani, ma c’è sempre quel “problemino” di un debito al 147% del Pil, per cui non può neanche pretendere che questi finanzieri continuino a comprare Btp quando leggono programmi che promettono mostruosi incrementi di spesa senza coperture come se non ci fosse un domani. Ha voglia la ragazza a tentare di rassicurare finanza e mercati su Bloomberg che una volta a Palazzo Chigi rispetterà i vincoli di bilancio europei, quando i suoi alleati Salvini e Berlusconi sono scatenati a promettere agli italiani “Roma et omnia”, facendo quasi venire il sospetto che vogliano crearle intenzionalmente dei problemi. 

In poche parole non basta andare in Spagna a urlare “Yo soy Giorgia“, ed  il suo vero avversario  non è Enrico Letta, bensì l’Europa ed i Mercati, in una sola parola la “realtà”. 

E già che siamo arrivati al leader del Pd, la sua linea politica, e le conseguenti scelte in tema di alleanze elettorali, rappresentano a mio avviso lo specchio preciso di un Partito i cui valori, i cui contenuti programmatici, non corrispondono più alle aspirazioni che furono alla base delle scelta di chiamarlo “democratico”, cioè come punto di incontro del mondo cattolico con quello ex comunista. 

Ma il problema sta proprio in quel termine “ex comunista”. 

Meglio sarebbe definirla “Questione comunista” che vuol dire non avere mai fatto fino in fondo i conti con la storia del comunismo dalla Rivoluzione d’Ottobre al suo crollo, e con il conseguente  ruolo del Pci. 

La sinistra italiana non ha mai voluto affrontare come la socialdemocrazia tedesca la sua Bad Godesberg, e quelle ambiguità sono tutte ancora ben presenti nel Partito. 

Quel passaggio epocale lo hanno invece fatto tutte le altre forze di sinistra europee, dal Labour britannico, alla Spd tedesca come accennato, dai partiti socialdemocratici scandinavi al Psoe spagnolo. A onor del vero, nella storia recente c’è stato chi ha capito il problema, ed ha cercato di superarlo. 

Lo aveva ben compreso ad esempio Walter Veltroni, il cui sforzo di voltare pagina fu azzerato con la sua defenestrazione ad opera della sinistra dalemiana, da sempre vera interprete e custode dell’ortodossia comunista. 

Ci provarono poi Matteo Renzi e Paolo Gentiloni a collocare il Pd in quel campo dove stanno le socialdemocrazie e i partiti liberal democratici europei. 

A mio avviso i loro furono i migliori Governi dal 2014 al 2018, ma i loro tentativi si infransero ancora una vota nel corpaccione comunista che ancora controlla il Pd, e così abbiamo visto prima l’infatuazione dei Dem per Giuseppe Conte, poi il sogno di Goffredo Bettini di costruire il partito unico demo populista anche con Liberi e Uguali. 

Si spiega così l’insanabile avversione del Pd nei confronti di Matteo Renzi, perché le idee socialdemocratiche e liberali del leader toscano non potevano certo trovare spazio ed accoglienza in un Partito in cui molti capi bastone si ritrovano intimamente in linea con le battaglie identitarie del Movimento 5 Stelle, fatte di giustizialismo, antiindustrialismo, assitenzialismo, declinismo, antiamericanismo, e filo arabismo in funzione anti Israele

E trovo corretta la previsione di Carlo Calenda che un minuto dopo le fine della campagna elettorale il Pd correrà inevitabilmente a stringere un nuovo patto con Conte e quel che resta del grillismo. 

In questo quadro pensate che Enrico Letta possa essere un leader autorevole? 

E non si può dire che non abbia tentato di spostare l’asse del partito verso posizioni liberiste incarnate da Calenda, ma non ha potuto e saputo reggere l’offensiva della predominante componente interna ex comunista, che lo ha obbligato a stringere alleanze anche con Bonelli e soprattutto Fratoianni, veri epigoni dell’era post sovietica. 

I problemi di Enrico Letta, e di qualunque Segretario di derivazione non comunista dovesse prendere il suo posto, stanno tutti qui; e sono queste incrostazioni ideologiche che impediranno a qualunque leader di fare del Pd un partito liberale di sinistra inserito nel socialismo europeo, un partito di governo che aspira a rappresentare le ambizioni e le aspettative di un’Italia moderna e post ideologica; un Partito i cui valori si riconoscano nella tradizione del progressismo democratico, e non in quelli del comunismo mondiale. 

Per tutti questi motivi mi auguro che quelle componenti cattolico-liberali, che pur esistono nel Pd, facciano una buona volta mente locale, e voltino lo sguardo con attenzione verso i tentativi in corso per creare un centro liberal democratico anche nel nostro Paese. Perché qualche anno fa a sinistra si diceva “non moriremo democristiani”, ma oggi sarebbe il caso che nella stessa area di sinistra qualcuno dicesse “non moriremo comunisti”. 

Umberto Baldo

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