È morto il regista Bernardo Bertolucci
E’ morto il regista e grande maestro del cinema italiano Bernardo Bertolucci. Si è spento a Roma all’età di 77 anni.
(FONTE ANSA)
Nato a Parma il 16 marzo 1941, Bernardo Bertolucci è il figlio del poeta Attilio Bertolucci e di Ninetta Giovanardi. Cresciuto assieme a suo fratello Giuseppe (anche lui regista cinematografico non meno bravo e noto autore teatrale), è il nipote del produttore cinematografico Giovanni Bertolucci.
Fin da piccolo respira aria di cinema in casa sua che, da adolescente, lo spingerà a realizzare cortometraggi in 16 mm come Morte di un maiale e La teleferica (1956-1957), girati nella casa di Casarola sull’Appenino emiliano. Decisiva per la sua carriera un’amicizia, quella con Pier Paolo Pasolini, presentatogli da suo padre quando il regista prenderà casa vicino alla loro.
Iscrittosi alla Facoltà di Letteratura Moderna dell’Università La Sapienza di Roma, abbandona gli studi per dedicarsi al cinema. Il primo lavoro (trovatogli dal produttore Cino Del Duca) è quello di assistente regista di Pasolini nella pellicola Accattone (1961) con Franco Citti e Adriana Asti (che sposerà); poi nel 1968, firma con Dario Argento e Sergio Leone il capolavoro del cinema C’era una volta il West (1968).
Nel 1962, con Tonino Guerra come produttore, realizza il suo primo lungometraggio La commare secca, su soggetto e sceneggiatura di Pasolini (che inizialmente avrebbe dovuto esserne regista).
Dopo essere stato montatore del documentario di Laura Betti Il silenzio è complicità (1976), firma la sua pellicola più vicina alla Nouvelle Vague (per eccesso di letterarietà poetica, per il preziosismo delle immagini sopra le righe, per la voce fuori campo, per il montaggio delle sequenze, per l’originalità delle inquadrature) Prima della rivoluzione (1964), crisi morale e sociale di un giovane borghese, dove si delinea per la prima volta il suo comunismo e la sua utopia politica.
Sempre seguendo il suo personale discorso esistenzialista arriva Partner (1968) con Stefania Sandrelli, tratto dal romanzo “Il sosia” di Fedor Dostoevskij, al quale si aggiunge l’episodio Agonia di Amore e rabbia (1969) firmato con Carlo Lizzani, Godard, Marco Bellocchio e Pasolini.
Il suo primo film di successo unanime di pubblico e critica fu il capolavoro Il conformista (1970), tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, dove impone ancora una volta la Sandrelli, e la affianca a Dominique Sanda, (scelta visto il costo troppo alto di Brigitte Bardot). Questa angosciosa parabola di una vita e di un’epoca sbagliata serve a Bertolucci per analizzare con uno stile personale il nauseabondo e sarcastico fascismo quotidiano, omaggiato da un Premio Interfilm e dal Premio Speciale dei Giornalisti, ma soprattutto da una candidatura all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale.
Parallelamente traspone sul grande schermo il racconto “Tema del traditore e dell’eroe” di Jorge Luis Borges con il titolo di La strategia del ragno (1970), con Alida Valli. L’opera è una delle più suggestive del cinema italiano grazie alla leggerezza della struttura narrativa poliziesca, nella quale si fonde il realismo padano e crepuscolare.
Nel 1972 arriva il clamoroso successo di Ultimo tango a Parigi con un grande Marlon Brando e Maria Schneider in una delle più memorabili tragedie dello schermo. Il pubblico reagisce in maniera entusiastica (applausi interminabili) a questo lungimirante dramma erotico fra una giovane di vent’anni e un uomo di quaranta che scatenerà un ciclone di scandali, sequestri, polemiche e perfino condanne al rogo, ma che porterà nelle sale ben 14 milioni di spettatori (compresi quelli della riedizione del 1987 da Titanus, dopo la sentenza di oscenità del 17 febbraio). Il motivo è la vasta presenza di spudorati nudi frontali e una scena (la più scabrosa secondo alcuni) con un uso “improprio” del burro. Bertolucci viene condannato a 4 mesi per oscenità, ma la Storia del Cinema è cambiata ormai e, a confermarlo, arriva un Nastro d’Argento e una candidatura all’Oscar come miglior regista.
Chi pensò che Bertolucci non avesse più niente da dire e avesse toccato l’apice del suo successo artistico (ancora lontano) con questa pellicola, si dovette ricredere, perché a incrementare la sua popolarità arrivò l’epico Novecento (1976) con un cast mostruoso (Robert De Niro, Gérard Depardieu, Sandrelli, Sanda, Valli, Burt Lancaster e tanti altri ancora). Una metafora di mezzo secolo, con cui il regista trasfigura un melodramma familiare italiano favoloso e talmente massiccio da essere diviso in due atti.
Dopo tanta grandezza sente l’esigenza di farsi più intimo, di restringersi, e arriva La luna (1979), con Roberto Benigni, nel quale si affronta il tema della droga e dell’incesto e che gli permette di imporsi definitivamente come un regista che si ama o si odia. A completare questa necessità del piccolo arriva La tragedia di un uomo ridicolo (1981) con Ugo Tognazzi e Vittorio Caprioli, sul difficile rapporto fra genitori e figli affrontato a tratti con amarezza, con autoironia e con poesia.
Negli anni Ottanta arriva il kolossal, la punta di diamante della sua carriera: L’ultimo imperatore (1987), con Peter O’Toole diretto in Cina con una straordinaria potenza visiva. Tratto dall’autobiografia “From Emperor to Citizen – The Autobiography of Aisin-Gioro Pu Yi” di Henry Pu-yi, il regista parmese racconta la solitaria storia dell’ultimo imperatore cinese, costretto a passare dalla prigionia reale e nobile della Città Proibita a quella dell’esilio forzato a Pechino. L’ultimo imperatore si guadagna ben nove Oscar, fra cui quelle per la migliore sceneggiatura non originale e quella per il miglior regista, e fa anche incetta di BAFTA, César, David di Donatello, Golden Globe, European Award e Nastri d’Argento.
Dopo una tale fatica si concede a piccoli progetti corali come 12 autori per 12 città (1990) con Michelangelo Antonioni, suo fratello Giuseppe Bertolucci, Mauro Bolognini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Mario Soldati, Franco Zeffirelli e Lina Wertmüller, raccontando la sua Bologna. Ma si dedica anche a Il tè nel deserto (1990) con John Malkovich, uscendone ricco di nuove forme, sensazioni, pulsioni, tristezze e fragilità. La storia di una coppia che si perde in un viaggio in Africa dove incontrerà carnalità e morte si contrappone a quella piena di spiritualismo, cultura e sofisticatezza intellettuale del Piccolo Buddha (1993).
Dopo tre anni torna alla carica con Io ballo da sola (1996) con Stefania Sandrelli, educazione sentimentale di una ragazza americana alle prese con la propria sessualità. Ma non gli basta, vuole andare ancora più a fondo e costruire un nuovo dramma da camera: arriva L’assedio (1998), tratto da un racconto di James Lasdun, dove il fascino del confronto elementare fra uomo e donna è costretto a sopravvivere e bruciare in uno spazio delimitato, oltre il quale ci sono altre vite, altre responsabilità, altre realtà. Un meccanismo che si ritrova anche in The Dreamers – I sognatori (2003), all’interno del quale il ménage a trois di tre giovani ragazzi francesi nel pieno del ’68 diventa un modo per dichiarare amore eterno al cinema, erudito o meno.
I suoi ultimi tre film sono quelli che ogni giovane dovrebbe vedere almeno una volta nella propria vita. Il primo insegna una nuova concezione per vivere se stessi durante l’adolescenza, quando le scelte fondamentali sono ancora da compiere e si ha la necessità di esperienze che devono andare oltre l’influenza ambientale ed essere solo ed esclusivamente personali. Il secondo offre allo spettatore più giovane l’apertura mentale necessaria perché non si faccia resistenza di fronte al prossimo, ma lo si accolga in tutti i suoi bisogni, desideri e pulsioni. E il terzo è senza alcun dubbio un manifesto della libertà sessuale, mentale e spirituale.
A distanza di diversi anni presenterà a Cannes Io e te, tratto da un romanzo di Niccolò Ammaniti.