E’ tempo di riprendere le bandiere del femminismo?
Umberto Baldo
Qualche giorno fa mi sono trovato a ragionare con un amico sul tasso di femminismo presente sia nel film che ha vinto il Leone d’oro a Venezia, “Povere Creature” del regista greco Yorgos Lanthimos (tratto de romanzo Poor Things di Alisdar Gray), sia in quello forse meno pretenzioso culturalmente, ma capace di superare il miliardo di dollari di incassi, del film Barbie.
Ovviamente non è questo il luogo, e neppure ne ho l’intenzione, di recensire le due opere cinematografiche, ma come accennavo, la discussione con il mio amico sul “tasso di femminismo” presente nei due film, mi ha portato a riflettere su queste domande: Ma cosa significa davvero la parola “femminismo” oggi? e “Può una donna definirsi ancora femminista nel 2023”?
In realtà non è poi così semplice rispondere a queste due questioni.
Storicamente questo termine apparve per la prima volta in inglese nel 1841, anche se originariamente non aveva alcuna valenza politica, ma indicava semplicemente qualcosa che aveva a che fare con le donne.
Ma ben presto divenne sinonimo di radicale, ribelle e politico, da cui derivò la sua stretta associazione con marce e proteste.
Inoltre, a livello accademico, il femminismo finì per rappresentare la corrente teorica che criticava le tendenze culturali dominanti, in particolare la misoginia (sentimento di avversione, repulsione o pregiudizio radicato contro le donne).
Alla fine si impose a livello generale la definizione di femminismo come “movimento che lotta per porre fine al sessismo, allo sfruttamento ed all’oppressione sessista”.
Il femminismo, inteso come movimento di lotta delle donne, ha visto nel tempo varie fasi, ognuna mirata ad affrontare alcune tematiche ben precise.
Nel 1865 in Gran Bretagna si ebbe la “prima ondata” che vide come protagoniste le cosiddette “suffragette”, e la loro lotta per ottenere il diritto di voto.
In questa fase il movimento femminista si concentrò quasi esclusivamente su rivendicazioni di natura politica, sebbene le suffragette chiedessero anche la parità fra gli uomini e le donne nel diritto di famiglia.
Fu una lotta anche aspra, con violenze e arresti, e le suffragette dovettero aspettare decenni per vedere risultati concreti; infatti il suffragio venne esteso alla popolazione femminile solo nel Novecento.
La cosiddetta “seconda ondata” del movimento femminista nacque e si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo scorso. Dopo la seconda guerra mondiale gli Usa conobbero un boom economico ancor più esplosivo di quello europeo, e la prosperità contribuì al mutare degli standard sociali, già messi in discussione durante il conflitto, dopo che le donne sostituirono nei posti di lavoro gli uomini impegnati al fronte.
Ovviamente cambiarono i temi, che si concentrarono sulla sessualità, sullo stupro e sulla violenza domestica, sui diritti riproduttivi, ma anche sulla parità di genere sul posto di lavoro. Furono anni di profondi cambiamenti; solo per fare un esempio nel 1961 negli Usa venne messa in commercio la prima pillola contraccettiva.
Gli echi delle proteste si trasferirono qualche anno dopo anche in Europa, e così negli anni Settanta anche le piazze del nostro Paese vennero invase dalle donne, decise a rivendicare diritti ancora negati, come quello di divorziare o di interrompere una gravidanza indesiderata.
Le battaglie per il divorzio e l’abortosono le più famose, ma non le uniche.
Le femministe italiane si batterono anche per rimuovere il delitto d’onore, che assicurava pene ridotte agli uomini che assassinavano la moglie adultera, e per poter accedere a professioni loro negate, come ad esempio la Magistratura.
La “terza ondata” si sviluppò negli anni Novanta, dato che anche se qualcuno parlava di società post femminista, le discriminazioni uomo-donna non erano affatto scomparse, e così le femministe continuarono a lottare perché ildivario salarialetra uomini e donne venisse riconosciuto e colmato, segnalando le difficoltà che le donne incontravano nel fare carriera, e battendosi perché venisse approvata una legislazione contro le molestie sessuali.
Oggi, nonostante tutto, il gender gap non è stato colmato completamente, e secondo il World Economic Forum “se va avanti così’ occorrerà un altro secolo per chiudere il divario globale di genere”.
Io penso che la strada sarà ancora più lunga, ma ci tornerò più avanti.
La “quarta ondata” partì nel 2015 dall’Argentina, e trovò il suo slogan in “Non una di meno”. Gli obiettivi principali erano la richiesta di uno spazio politico di autodeterminazione delle donne, per la costruzione di una società libera dal sessismo e dalla violenza.
Vivendo nelle nostre società europee, ed in generale nelle democrazie occidentali, potrebbe sembrare che il “femminismo” abbia di fatto raggiunto tutti gli obiettivi, e non abbia più alcuna ragione di esistere.
Ma allargando lo sguardo al mondo, non possiamo non vedere che un emendamento alla legge sulla protezione dei diritti e degli interessi delle donne, approvato dal massimo organo legislativo cinese, ha introdotto un elenco di standard morali indirizzato alle donne che sembra volerle ricacciare nei ruoli tradizionali: la casa, il matrimonio e la famiglia. Che un rapporto della Corte dei conti ungherese ha sostenuto che l’istruzione femminile avrebbe potuto causare “problemi demografici”, poiché le donne istruite non sarebbero in grado di trovare coniugi con un’istruzione simile, il che potrebbe portare ad un “calo della fertilità”.
Ma soprattutto che nell’intero mondo arabo-musulmano, dall’Afghanistan all’Iran, solo per citare due Stati, le donne sono ancora considerate poco più che oggetti di proprietà degli uomini, e le loro proteste contro i regimi teocratici e le loro imposizioni vengono soffocate nel sangue.
E non è che nella maggior parte degli Stati africani la situazione delle donne sia migliore.
Ecco perché le stime del Word Economic Forum mi sembrano un po’ ottimistiche.
Ma a mio avviso anche in Italia molto resta ancora da fare.
Certo sono stati fatti molti passi avanti, e grazie alle conquiste del passato le ventenni di oggi possono dirsi fieramente “non femministe”.
Si sentono libere ed è un’ottima notizia, anche se i dati continuano a raccontare un’altra storia.
In Italia il divario tra generi nei tassi di occupazione è uno dei più alti d’Europa, e i risultati peggiorano se si guarda agli stipendi e alle presenze nei ruoli di vertice.
Ma è soprattutto l’aspetto della violenza sulle donne a doverci inquietare.
Ormai non passa giorno che non si registri la vita spezzata di una donna, quasi sempre ad opera di un partner o di un familiare.
C’è poco da girarci attorno; il femminicidio è ormai diventato un fenomeno sociale, spesso preceduto da tutte le forme di violenza contro la donna in quanto donna, praticate attraverso diverse condotte misogine; maltrattamenti, abusi sessuali, violenza fisica o psicologica.
Di fronte a questa situazione diventa comprensibile la protesta messa in atto da un gruppo di attiviste durante il red carpet del film Coup de chance di Woody Allen all’80esima Mostra internazionale del cinema di Venezia.
«Spegnete i riflettori sugli stupratori», «Lo stupratore non è malato, è figlio sano del patriarcato», «Siamo il grido altissimo e feroce di tutti quei corpi che più non hanno voce»; questi alcuni degli slogan gridati dalle femministe durante il flash mob in topless e con il corpo ricoperto di vernice rossa.
L’azione è avvenuta nella zona antistante tra il Palazzo e il Casinò, quando il regista statunitense e la moglie Soon-Yi Previn uscivano dall’auto prima della passerella.
Le attiviste hanno diffuso anche dei volantini con messaggi in cui si sottolinea la presenza al festival di tre persone che sono state coinvolte in procedimenti penali per casi di abusi e violenze sessuali: Roman Polanski, Woody Allen e Luc Besson.
Siamo alle soglie di una “quinta ondata” di femminismo?
Francamente non lo so, ma credo fermamente che non sia ancora arrivato il momento di abbassare la guardia, se del caso riprendendo in mano le bandiere di tutte quelle donne che dalla metà dell’Ottocento si sono battute per la loro emancipazione e per i loro diritti.
Umberto Baldo