16 Febbraio 2019 - 11.49

Editoriale- E se l’autonomia veneta fosse un grande inganno?

Al di là dei sorrisi di circostanza e delle manifestazioni di soddisfazione, peraltro un po’ impacciate, per l’avvenuta presentazione in Consiglio dei Ministri della bozza per l’autonomia di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, l’impressione è che, al di là di un “pezzo di carta”, grandi passi avanti non se ne siano fatti, e che il bello, visti i “dubbi” del Movimento 5 Stelle, sia ben di là da venire.

Soprattutto perché l’unica misura veramente in grado di imporre un cambio di marcia, vale a dire l’adozione dei cosiddetti “costi standard” come riferimento per il controllo della spesa pubblica, sembra di capire sia stata rinviata al “mese del dopo, dell’anno del mai”.

Perché, al di là di quello che vi diranno o vorranno farvi credere, tenete sempre ben presente che con i costi standard l’autonomia c’è, con i costi storici no.

Senza costi standard si passerebbe semplicemente da un centralismo “romano” ad un altro centralismo, veneziano, milanese o bolognese, per carità più vicino ai residenti veneti, lombardi od emiliani, ma di fatto una “replica” che perpetuerebbe l’attuale sistema.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando, ritengo utile prendere lo spunto dalle Confederazioni dell’Artigianato e della Piccola e Media Industria (CNA) di Lombardia, Veneto ed Emilia, che hanno affidato al Centro Studi “Sintesi” l’incarico di elaborare l’annuale rapporto dell’Osservatorio economico territoriale.

Ne è uscito uno studio titolato “Autonomia per lo sviluppo”, molto interessante per comprendere appieno le caratteristiche ed i problemi delle tre Regioni italiane economicamente più avanzate, e che dimostra come le stesse risultino penalizzate rispetto alle principali Regioni europee, con le quali si devono comunque misurare sui mercati internazionali.

Come sempre, un conto sono gli “slogan” e le promesse elettorali, ed un conto i numeri, con i quali è un po’ più difficile barare.

Prendiamo, dallo Studio CNA, i dati relativi alla spesa pubblica (riferimento 2017).

Prendendo come 100 la media della spesa pubblica italiana, la Lombardia ne beneficia per 60, l’Emilia per 65, ed il Veneto per 69.

Ma lo stesso ragionamento, riferito alla Germania, mostra che il NordReno Westfalia riceve 96, il Baden Wurttemberg 89 e la Baviera 87. Ma spostandoci in Spagna le cose non cambiano; e così nei Paesi Baschi la spesa pubblica è di 102 punti, nella Comunità Valenciana 97, ed in Catalogna 91.

Quindi i trasferimenti dello Stato centrale in queste Regioni europee sono nettamente superiori rispetto a quella ricevuti dalle nostre tre Regioni, in cui la spesa pubblica per abitante è compresa tra i 2.300 ed i 2.400 euro, mentre nei Paesi Baschi è ad esempio di 4.770 euro, e nei principali Lander tedeschi di 4.400 euro.

Ma non facciamoci ingannare da questi dati.

In realtà la media italiana del “sostegno pubblico” ai Pil regionali, pari a circa il 10,3%, è assolutamente in linea con le media tedesca, francese e spagnola, e non ci vuole certo Einstein per capire il perché.

Si tratta della famosa “statistica del pollo” di Trilussa, in base alla quale se la media ci dice che ognuno mangia un pollo all’anno, se tu il pollo non lo vedi, c’è un altro che di polli ne mangia due.

Ed in effetti nelle altre 17 Regioni italiane il supporto statale al Pil regionale si attesta fra il 15% ed il 25%.

Uno potrebbe anche dire: pazienza, è giusto che chi ha di meno riceva di più. Vero, se non che questo squilibrio sta sempre più zavorrando la competitività di Veneto, Emilia e Lombardia, che non va dimenticato producono l’80% dell’export italiano.

E la conseguenza diretta sta nel progressivo crollo degli investimenti delle tre Regioni in questione, diversamente da quanto avviene invece per i Lander tedeschi e le Comunidad spagnole.

Se poi guardiamo i dati relativi alla spesa pubblica delle Regioni rispetto al Pil prodotto, troviamo altre sorprese.

La media di tutte le Regioni è pari al 39,1%; ma spacchettando i dati si scopre che con una spesa superiore al 50% del Pil prodotto stanno sei Regioni: Calabria (59,2%), Molise (57,2%), Sardegna (56,2%) Sicilia ( 54,7%), Puglia (54,1%) e Basilicata (51,2%).

Fra la media nazionale ed il 50% si trovano altre otto Regioni: Campania (48,3%), Umbria (46,4%), Abruzzo (45,2%), Lazio (43,5%), Friuli Venezia Giulia (43,5%), Valle d’Aosta (43,2%), Liguria (42,5%), Marche (39,%%).

In coda Trentino Alto Adige (37,6%), Toscana (37,2%), Emilia Romagna (32,5%), Veneto (31,9%) e Lombardia (29,9%).

Scorrendo questi dati si vede ad occhio nudo che maggiore è il Pil prodotto, minore è la percentuale della spesa regionale. In parte comprensibile, ma sicuramente penalizzante per l’economia delle regioni più produttive.

Oltre a tutto non si può non constatare che tutta questa spesa pubblica in certe Regioni non ha prodotto alcun sviluppo. Anzi è vero il contrario, soprattutto sul fronte dei servizi al cittadino, se è vero come è vero ad esempio che il “turismo sanitario” dal sud al nord è diventato un fenomeno ormai inarrestabile, con forte aggravio dei costi per le Regioni meridionali. Con il bel risultato che un cittadino delle regioni del sud la sanità la paga due volte; la prima per mantenere le strutture della propria regione, e la seconda per pagare le regioni del nord per poter accedere a cure più efficienti.

Altro dato interessante è quello relativo a quanto spende lo Stato italiano nelle diverse Regioni. Da dati 2013/2015 la media risulta essere di 3.443 euro. Ma anche in questo caso troviamo il Lazio (considerate le spese per i ministeri) a 6.045 euro, seguito dall’ Abruzzo a 4.414, Molise a 4.382 e Calabria a 4.150. La media delle regioni a statuto speciale è di 8.092 euro in Trentino Alto Adige, 7.746 in Valle d’Aosta, 5.337 in Sardegna, 5.034 in Friuli Venezia Giulia e 4.301 in Sicilia. Lombardia (2.384 euro), Emilia Romagna (2.772 euro) e Veneto (2.816 euro) chiudono anche in questo caso la classifica. In generale alle Regioni del Nord vanno in media 3.084 euro pro capite, a quelle del Sud 4.020 euro.

L’ultimo dato è quello del cosiddetto “residuo fiscale”, cioè la differenza fra quanto una Regione versa come tributi allo Stato e quanto ritorna sul territorio. Non è un dato di facile determinazione, ma secondo studi accreditati la Lombardia avrebbe un residuo fiscale di 52 miliardi, l’Emilia Romagna di 18,8 miliardi, il Veneto di 15,4 miliardi. Tutte le altre Regioni ricevono più di quanto versano.

Capito?

Questi i dati elaborati dalla Cna, che più di tutto spiegano chiaramente l’opposizione delle Regioni del Centro-Sud alla maggior autonomia richiesta da Lombardia, Emilia e Veneto. Ma poiché il “mese del dopo dell’anno del mai” non sappiamo se e quando arriverà, nelle more la Politica dovrebbe almeno alleggerire l’oppressione della burocrazia, che nelle realtà più dinamiche comporta un insostenibile aggravio di tempo e di costi per chi lavora, produce ed esporta. Sarebbe già un buon risultato, unitamente ad un impegno concreto e convinto affinché le risorse in eccesso delle Regioni più produttive non vengano utilizzate per perpetuare le inefficienze del sistema, fra spesa fuori controllo, eccessi di personale e quant’altro.

Credo si tratti solo di buon senso, non di volontà del Nord di abbandonare il Sud.

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