Elezioni in Sardegna: primo stop al “melonismo imperante”
Se la politica fosse una scienza esatta, a governarci basterebbero forse i fisici, i matematici, gli statistici.
Ma sarebbe senz’altro una cosa noiosa, perché il bello, e talvolta anche il brutto della politica, sta proprio nella sua imprevedibilità.
Domenica è iniziato il “campionato elettorale” 2024, che finirà con le Europee a giugno, dopo aver fatto tappa in Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Umbria.
Ed è iniziato in una Regione particolare, la Sardegna, che a parte le sue bellezze naturali, a parte il suo mare, a parte la sua storia millenaria, non si può certo annoverare fra le “grandi” Regioni italiane, e mi riferisco ovviamente solo al numero di residenti.
Però, come sempre avviene nel Belpaese, queste elezioni sono state caricate di una valenza politica che oggettivamente in realtà non hanno.
Ma in una politica spaccata a metà in due poli contrapposti, ogni scontro elettorale finisce inevitabilmente per assumere i toni di una pugna all’ultimo sangue.
A urne ancora “calde” non mi lancerò, come si fa solitamente, nel commento del risultato, arrivato peraltro al fotofinish (a mia memoria non ricordo distacchi così impalpabili in una elezione), e neppure nel dettaglio dei flussi elettorali (peraltro molto interessanti, e su cui ragionare).
Relativamente ai numeri mi limiterò a rilevare da un lato che il Partito Democratico ha preso quasi il doppio dei voti del Movimento 5Stelle (che peraltro ha ottenuto il primo Presidente donna delle Regione Sardegna), e dall’altro che la “Lega Salvini Sardegna” ha preso un 3,8%, rispetto al 6,3% di Forza Italia, ed al 13,6% di Fratelli d’Italia.
Sono numeri che dovrebbero sicuramente far riflettere i leader dei Partiti, ed io penso in particolare a Matteo Salvini, sul quale, potrei anche sbagliarmi, comincia a soffiare un certo “vento del Nord” (non vanno a mio avviso sottovalutate le parole di Luca Zaia che di recente in un nostalgico ricordo ha detto: “Noi nasciamo per difendere i Veneti. Abbiamo fatto una federazione con altre Regioni, e si chiamava Lega Nord. A me piaceva di più”).
Il voto sardo a mio avviso decreta il fallimento della politica dello “sbarco al Sud” del Capitano.
Avendo una certa abitudine a guardare i nomi, la cosa non mi ha mai stupito più di tanto; non solo per il “peccato originale” delle origini “nordiste” della Lega, ma soprattutto perché l’espansione al Meridione è stata attuata collegandosi ed appaltando il Partito al solito notabilato locale, rotto a tutte le esperienze ed a tutte le alleanze, abituato a cambiare sovente casacca a seconda di convenienze spesso personali, e stagione dopo stagione sempre più screditato.
A sinistra la vittoria di Alessandra Todde rappresenta un indubbio ottimo risultato sia per Giuseppe Conte, che ha tenuto duro ed imposto al Pd la sua candidata come condizione per l’alleanza, sia per Elly Schlein che, vincendo i molti dubbi all’interno del suo Partito, ha tirato dritto sulla sua visione del “campo-largo”.
Questa affermazione potrebbe cambiare il clima a gauche, perché la Sardegna non era un feudo da difendere (come l’Emilia-Romagna o la Toscana), bensì una Regione da strappare alla destra, ed era dal lontano 2014, quando Vicenzo De Luca sfilò la Campania a Caldoro, che il Centrosinistra non conquistava una Regione amministrata da altri.
La conseguenza potrebbe essere quella di costringere Conte a mitigare i suoi abituali distinguo, e a puntare finalmente alla costruzione di un’alleanza credibile a livello nazionale, di quell’alternativa cui la Schlein ha sempre mostrato di credere.
Resta la Premier, che dopo aver tappezzato l’Isola di manifesti con il suo volto gigantesco, e la scritta “Forte e fiera”, dopo aver “sfrattato” a muso duro il Governatore uscente Christian Solinas, sponsorizzato da Salvini, e dopo aver imposto Paolo Truzzu, da lei scelto con l’unico criterio con cui è usa selezionare la classe dirigente nazionale, quello dell’appartenenza e della fedeltà, ha perso le elezioni.
Certo la Sardegna non è il famoso Ohio, ma è stata lei a voler personalizzare al massimo la competizione, con la conseguenza che il voto ha assunto un valore politico nazionale.
Tranquilli, non succederà niente, la coalizione non si incrinerà, il Governo non avrà scossoni, la leadership della Meloni non verrà messa sicuramente in discussione, almeno nell’ immediato.
Ma paradossalmente Giorgia Meloni dovrebbe fare tesoro di questa sconfitta.
E vi dico perché.
Io credo che il gestire un enorme potere come quello di un premier possa inebriare e far perdere i contatti con la realtà del Paese.
E credo anche che nessuno ne possa essere immune.
Il trovarsi improvvisamente a sedere ai tavoli con i Grandi della Terra che ti danno del tu, il prendere bene o male decisioni che possono influenzare la storia, o condizionare la vita di milioni persone, penso possa portare ad una sorta di “sindrome di onnipotenza”.
Gli stessi sintomi che a un certo punto del suo mandato da premier manifestò ad esempio Matteo Renzi, e che lo hanno portato dalle stelle alle stalle in un breve lasso di tempo.
E si tratta di sintomi che a mio avviso si cominciano a percepire anche in Giorgia Meloni.
Parlo di certi atteggiamenti tesi a ridicolizzare il dissenso, di certe battute al vetriolo in Parlamento, del compiacimento fisiologico per tutta l’opera dal Governo, di quegli “abbiamo fatto”, di quei “grazie a noi”, buttati là ad ogni piè sospinto, di quel far capire che tutto quello che hanno fatto i predecessori è da buttare, mentre diventa oro colato quello che decide lei ed il suo Esecutivo.
Tutti sintomi, ripeto, che fanno pensare un progressivo distacco dal Paese reale, che la Meloni conosceva bene, e frequentava, nei lunghi anni dell’ opposizione.
Le conseguenze si sono viste domenica in Sardegna; e mostrano che non si può candidare un politico locale non particolarmente apprezzato, pensando di poter vincere ugualmente le elezioni grazie alla propria capacità di trascinamento, alla propria leadership, alla propria esposizione personale.
Ed è quindi inevitabile che “se ci metti la faccia”, sia la tua faccia che risalta in caso di sconfitta.
A ben guardare gli elettori sardi hanno imposto il primo “stop” a quel “melonismo imperante”, basato su un assunto di invincibilità della donna sola al comando, mettendo in crisi l’efficacia del “one woman show” (e se leggete bene i dati, qualora Renato Soru non avesse presentato la sua inutile lista “di disturbo”, fra Todde e Truzzu non ci sarebbe neppure stata partita).
Penso che la premier dovrà anche mettere in conto che gli alleati, per quanto scomodi, vanno in ogni caso coinvolti, mai piegati ai propri voleri, mai assoggettati alla propria forza.
Come faceva Silvio Berlusconi, che accoglieva nella sua villa in Sardegna (guarda la coincidenza) un Umberto Bossi in canottiera, che qualche giorno prima magari lo aveva accusato di “peronismo” (accusa cui il Cavaliere rispose con una battuta strepitosa: “Quando Bossi parla di peronismo io credo che si riferisca alla birra Peroni, che è l’unicoperonismo che conosce”).
Per concludere, Giorgia Meloni dovrebbe considerare le elezioni sarde come una medicina, amara come spesso sono le medicine, ma utili, se si assumono, per bloccare il diffondersi del virus dell’onnipotenza.
Virus che era noto anche ai nostri padri latini, i quali non a caso alle spalle del generale vincitore sul carro del trionfo piazzavano uno schiavo che teneva una ghirlanda d’oro sopra la sua testa, e di tanto in tanto gli sussurrava all’orecchio “Ricordati che sei mortale”.
Ps: data la vittoria risicata, sono garantiti i ricorsi per il riconteggio dei voti. Ciò fa parte delle consuetudini radicate di questo nostro Paese, e sono già stati annunciati a spoglio in corso. Tanto un ricorso non costa niente, e “anvedi mai che……”