31 Ottobre 2024 - 9.37

Elezioni USA – Sulla libertà di stampa non ci sono vie di mezzo

Umberto Baldo

Cosa direste se improvvisamente aprendo il vostro smartphone od il vostro Pc vi fosse impedito di accedere a Wikipedia, a YouTube, ad Instagram, a X, e a tutti gli altri social che ormai siete abituati a consultare continuamente?

E se al loro posto vi fosse una sorta di Wikipedia costruita dal Governo del vostro Paese, nella quale qualunque voce dissonante o in aperto dissenso con i governanti fosse completamente cancellata, sostituita da un’informazione di regime?

Immagino che qualcuno di voi stia andando indietro con il pensiero ai tempi di Hitler e Mussolini, ma non occorre fare troppi esercizi di memoria.

Basta pensare alla Russia di Putin, alla Cina di Xi Jinping, all’Iran degli Ayatollah, alla Corea del Nord di Kim Jong-un, al Venezuela di Maduro, e a molti altri Paesi, troppi in verità, in cui la libertà di stampa è solo un sogno, e dove fare il giornalista è a rischio galera ed anche morte.

Spero conveniate con me che la libertà di stampa è alla base di una società democratica, o dovrebbe esserlo, perché garantisce ai cittadini la possibilità di esercitare il proprio diritto di scelta sulla base di informazioni non manipolate, e non al servizio di un interesse di parte. 

E come accennavo, non è un caso che, laddove ci sono guerre, governi autoritari o dittatoriali, uno degli elementi che per primo viene a mancare è la libera circolazione delle informazioni. 

Non solo, alcuni genocidi che si sono verificati nella storia hanno avuto come arma di diffusione la comunicazione attraverso i media. 

Un esempio terrificante fu Radio Mille Colline in Ruanda, nota anche come Radio Machete, un canale d’informazione utilizzato per dare indicazioni su come compiere i massacri, che coordinò efficacemente il genocidio fin dal suo primo giorno: il 6 aprile 1994.

Certo con l’avvento di Internet si pone anche il problema delle fake news e dell’ informazione usata per condizionare le menti; ma questo è un altro problema che richiede un altro approccio, perché la libertà di informazione non tollera limitazioni, o c’è o non c’è.

Il problema della stampa libera, o quanto meno condizionata, si è riproposto a mio avviso con una recente decisione di The Washington Post.

Noi europei abbiamo, o forse avevamo non lo so, un’immagine della stampa americana basata su alcune splendide rappresentazioni hollywoodiane, con film come “The Post”, “Spotlight”, e “Tutti gli uomini del Presidente”, con le vicende di Bob Woodward e Carl Bernstein, che con la loro caparbietà e voglia di verità costrinsero Richard Nixon alle dimissioni da Presidente. 

Non sono più quegli anni.

L’America è cambiata (in peggio a mio avviso), ed il bagliore di quelle rappresentazioni si è rapidamente affievolito in un’epoca di media frammentati, politica polarizzata, e avvento dei social media.

Ma nonostante questo calo di fiducia degli americani nei loro giornali, ha comunque fatto scalpore la notizia di qualche giorno fa, che informava che il Washington Post, uno dei giornali più influenti negli Stati Uniti, ha reso noto con un editoriale  firmato dal suo amministratore delegato, William Lewis, che non esprimerà il proprio endorsement – cioè il sostegno a un candidato – per le prossime elezioni presidenziali del 5 novembre, né lo farà più in futuro. 

Nonostante fosse in parte prevista, la notizia ha fatto molto discutere, perché il Washington Post fa endorsement dal 1976, non ne salta uno dal 1988, e ha sempre sostenuto candidati Democratici.

Nel suo editoriale Lewis ha motivato la decisione dicendo che il giornale vuole tornare «alle sue radici» e ha citato un editoriale del 1960 in cui si diceva che “è più saggio per un giornale indipendente della capitale della nazione evitare endorsement formali».

Dopo la pubblicazione del citato editoriale, il comitato di redazione (il Washington Post Guild) ha pubblicato un comunicato in cui si dice «molto preoccupato», e l’opinionista Robert Kagan si è dimesso in segno di protesta. Sedici opinionisti della redazione – quindi quegli autori che lavorano separati dai giornalisti che si occupano di notizie – hanno pubblicato un articolo in cui definiscono la decisione «un terribile errore», sostenendo che un giornale indipendente debba poter essere libero di non fare endorsement, ma che questo non è il momento di esercitare questa opportunità, poiché uno dei due candidati «minaccia direttamente la libertà di stampa e i valori della Costituzione».

Ricordo che, al di là degli endorsement, l’approccio del Post è storicamente progressista e Democratico, tanto che  nel 2017, dopo la vittoria di Trump, mise nella propria testata (ed è ancora lì) un motto che era un chiaro riferimento ai rischi della sua presidenza: “Democracy Dies in Darkness” (La democrazia muore nell’oscurità).

Queste prese di posizione non sono state le uniche: altri esponenti del giornale e della stampa hanno manifestato la propria contrarietà; e così anche molti lettori che hanno disdetto il proprio abbonamento al quotidiano (si parla di 200mila disdette).

Il problema è che il Post non è l’unica testata ad essersi mossa in tale direzione, perché  pochi giorni fa anche Patrick Soon-Shiong – dal 2018 proprietario del Los Angeles Times – ha reso noto di aver deciso la stessa cosa, causando un certo dissenso nel giornale, con le dimissioni di uno dei capi della redazione e di due giornalisti. 

Il Los Angeles Times, a sua volta uno dei giornali più letti negli Stati Uniti, non ha una storia di endorsement Democratici lunga come quella del Washington Post, ma da quando ha ricominciato a farli, nel 2008, ha sempre sostenuto i candidati del Partito: Barack Obama, Hillary Clinton e Joe Biden.

Guardate, il problema a mio avviso non sta nell’ “endorsement si, endorsement no”, perché ad esempio il New York Post, di proprietà di Rupert Murdoch, senza sorprese ha ufficializzato il suo “invito a votare” Trump, affermando che si tratta di una “scelta chiara per un futuro migliore“, mentre Kamala Harris ha  a sua volta incassato l’endorsement del Boston Globe e del New York Times. 

Il problema vero è un altro, e sta nelle motivazioni, più o meno palesi, che stanno alla base delle decisioni del Post e del Los Angeles Times, che vanno ricercate nei rispettivi proprietari.

Infatti Jeff Bezos è il fondatore di Amazon ed il capo della società spaziale Blue Origin: per questo la decisione è stata interpretata da molti come una sua mossa interessata per mantenere buoni rapporti col governo nell’eventualità di una vittoria di Trump.

Durante la sua presidenza Donald Trump era infatti stato molto critico nei confronti di Bezos e del Post. In una causa del 2019 Amazon ha affermato di aver perso un contratto da 10 miliardi di dollari con il Pentagono per le pressioni del tycoon che aveva spinto su Microsoft “per danneggiare il suopresunto nemico politico“.

Alcuni giorni fa Donald Trump ha incontrato i dirigenti di Blue Origin, la compagnia di Jeff Bezos che fa attività spaziali e dipende dalle commesse dello Stato.   Sarà un caso, ma poco dopo il Washington Post ha annunciato che non avrebbe appoggiato alcun candidato alla Casa Bianca.  Il sospetto è che si tratti di un chiaro caso di “do ut des”. 

Lo stesso discorso è stato fatto anche per Soon-Shiong, che da imprenditore nell’industria farmaceutica potrebbe temere di essere ostacolato dalla FDA (Food and Drug Administration) in caso di vittoria repubblicana.

Difficile non leggere questa decisione di Bezos e Soon-Shiong come paura che Trump vinca, e dunque come una obbedienza anticipata al possibile nuovo Presidente per tutelare i propri interessi, un atto di sottomissione anticipata rispetto a richieste non ancora esplicitate del “tiranno”.

D’altronde sarebbe bello che anche i super ricchi fossero sensibili ai problemi della democrazia americana, sulla quale sembrano volteggiare gli avvoltoi, ma purtroppo bisogna prendere atto che il loro unico credo è il “business is business”.

Umberto Baldo

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