Femminicidi e violenze sulle donne. E’ tempo di dire basta! …e di fare di più!
Umberto Baldo
Tutto va a finire sempre in grandi servizi sui telegiornali, infinite discussioni sui talk show, con annessi collegamenti dai luoghi degli avvenimenti dove spaesati cronisti cercano di carpire a parenti, amici e concittadini qualche “chicca”, qualche indiscrezione da aggiungere al profluvio di notizie, che hanno spesso il sapore di inutili pettegolezzi.
Ma c’è sempre un limite, almeno così io lo percepisco, che impedisce di affondare la lama nel bubbone, non solo per raccontare le tragedie, ma anche per cercare di indurre chi può, e a mio avviso deve, mettere in atto tutto quel che si può fare per arginare il fenomeno dei femminicidi.
Guardate, nella maggioranza dei casi, sia nei dibattiti che nelle manifestazioni di piazza, il cosiddetto “patriarcato” è sempre additato come la causa prima, nonché come il principale paradigma culturale di riferimento di chi commette violenza sulle donne.
Sicuramente qualcosa di vero c’è, ma qui non siamo né in Iran né In Afghanistan, dove le donne hanno lo stesso valore e la stessa considerazione di un “animale domestico”; qui siamo nell’Italia dell’anno domini 2024.
Per cui ci devono essere altriprocessi sociali che concorrono fortemente a condizionare l’esasperazione conflittuale dei rapporti di coppia, e le tragiche modalità di risoluzione dei conflitti.
E non raccontiamoci che la violenza sulle donne è diretta conseguenza dell’immigrazione.
Sarebbe troppo assolutorio, perché è vero che gli uomini che arrivano con i barconi si portano dentro la cultura della propria terra (dove spesso la donna è considerata un orpello a disposizione del maschio, che può disporne come meglio crede). Ma allora come spiegare l’uccisione di Giulia Cecchettin, o da ultimo di Sharon Verzeni (e mi limito soli a due casi)?
Quelli che le hanno massacrate a coltellate erano italiani!
Lo so che qualcuno, purtroppo anche fra i nostri Demostene, tende a distinguere Filippo Turetta da Moussa Sangare, immagino per il colore della pelle.
Ma queste sono distinzioni che non hanno più senso in una società multietnica come la nostra, e Moussa Sangare, nato in Italia e con cittadinanza italiana, deve essere giudicato con gli stessi parametri di un italiano di carnagione bianca.
Avrete sicuramente notato che, di fronte a certe efferatezze, forse per un meccanismo di difesa mentale, si tende sempre a pensare che si tratti di persone con problemi psichici.
E questa è la carta su cui giocano inevitabilmente anche gli avvocati difensori di questi macellai (d’altronde non è che si possono aggrappare a tante altre scusanti).
E può anche essere che in qualche caso ciò sia vero.
Ma restiamo ai fatti per capire come girano le cose nella Repubblica di Pulcinella, in cui secondo un’indagine Ipsos condotta nel novembre del 2021, al 36% delle donne italiane è capitato di subire una qualche molestia, e in ambito familiare o sentimentale vengono denunciati schiaffi/spinte (22%), forme di controllo sui comportamenti (tra 12% e 18%) e minacce/insulti (20%).
E sempre secondo gli intervistati da Ipsos, le cause della violenza sulle donne vanno ricercate nell’incapacità maschile di accettare delusioni e fallimenti, nella cultura maschilista e patriarcale, e nel fatto che gli uomini non sanno gestire i conflitti.
L’attualità ci fa scoprire che Moussa Sangare (l’uccisore di Sharon Verzeni) era stato oggetto di varie segnalazioni ai Servizi Sociali.
Che nel 2023 aveva dato fuoco alla cucina, dopo aver aperto il gas, che a maggio scorso aveva puntato un coltello contro la sorella.
Non credo ci volesse un collegio di psicologi e psichiatri per capire che il soggetto era un pericolo per la società.
E cosa è stato fatto dallo Stato per arginare gli istinti omicidi del soggetto?
Nulla, praticamente nulla, come avviene purtroppo nella maggioranza di casi simili.
Perché?
Semplicemente perché nel nostro Paese nessuno può essere sottoposto a qualche forma di cura senza un provvedimento di un giudice, e ciò anche se il soggetto manifesta evidenti problemi mentali.
Per comprendere la ratio di questa legislazione bisogna andare indietro fino agli anni 50-60 del secolo scorso, quando di fronte a queste problematiche si scelse di privilegiare il tema della libertà individuale rispetto a quello della sicurezza collettiva.
Di per sé non era una scelta sbagliata, anzi; ma in questa fase storica, con l’insorgere anche di problematiche di tipo etnico e religioso, si palesa tutta le sua inadeguatezza.
Il risultato è che anche i Giudici, di fronte alla cronica carenza di strutture adeguate, sono oggettivamente in difficoltà a decidere provvedimenti che impongano a questi soggetti di curarsi, se non c’è il loro consenso.
E a questo punto arriviamo fatalmente, come sempre, allo snodo vero, quello dell’insussistenza della Politica.
I nostri Governanti, quelli che deleghiamo con il voto a garantire anche la nostra sicurezza, e soprattutto quella delle nostre donne e ragazze, a parte le consuete manifestazioni di cordoglio ed esecrazione, le promesse di “mai più”, che sanno tanto di ipocrisia a buon mercato, dovrebbero prendere atto che c’è stato un profondo cambiamento sociale, e che aver chiuso i “manicomi criminali” è sicuramente stata una cosa buona, cui però non è seguita la costruzione di un sistema di protezione sociale contro questi soggetti inclini alla violenza.
Io credo che di fronte a questa strage continua (dall’inizio 2024 sono almeno 24 le donne uccise in ambito familiare, senza contare le altre) siano ormai inutili, o quanto meno insufficienti, appuntamenti come la “Giornata contro la violenza sulle donne”, che a mio avviso hanno sempre più solo il sapore di una testimonianza.
Mi si perdoni il paragone sicuramente un po’ azzardato, ma chi ha la mia età ricorda le “madri de plaza de mayo”, che furono le sole ad avere il coraggio di sfidare apertamente la dittatura argentina, e i cui fazzoletti bianchi divennero una della causa di maggior imbarazzo per il regime.
A scanso equivoci, lungi da me il solo pensare che in Italia oggi ci sia una dittatura, ma credo sia arrivato il momento di organizzare “presidi stabili” davanti alla Prefetture ed ai Ministeri, per far capire a chi nei Palazzi ha il dovere di fare e decidere, che la misura è colma, e che la mattanza delle donne deve finire, costi quel che costi.
Magari lo slogan potrebbe essere quel “Nunca mas” con cui le madri argentine sfilavano sfidando Videla e la sua cricca, e alla fine vinsero.
Ultima notazione: mi auguro che qualora qualsiasi Governo decidesse di prendere in mano la questione, dalla “gauche” o da altri ambienti non si levino le solite denunce di “attentati alla libertà personale” dei potenziali assassini.
Perché, almeno per quanto mi riguarda, la libertà di Moussa Sangare vale molto meno della vita di Sharon Verzeni.
Umberto Baldo