11 Maggio 2023 - 9.07

Gai sete?  No, gero dietro andare a mangiare!

In un pezzo su Tviweb del 1° febbraio 2019 dal titolo “La lingua veneta è straordinaria: perché vergognarsi di parlarla?” partivo da una domanda che avevo rivolto ad alcuni amici che parlano abitualmente il dialetto veneto: “sapete cos’è il moltòn?”

Mi trovai di fronte ad espressioni interrogative, e nessuno mi seppe dare una risposta.

Sicuramente i più vecchi lo sanno, ed in ogni caso si tratta di un termine che si usava sia per indicare un montone (maschio della pecora), che chi è affetto dagli “orecchioni” (parotite).

Quindi si dice “l’è un moltòn”, per indicare una persona “che no ghe rìva”, e “el gà el moltòn” per dire che il soggetto è affetto dagli orecchioni. 

Così come ormai la maggior parte dei veneti non sa cosa sia il “moltòn”, ci sono tantissimi termini che non sono più di uso comune, con la conseguenza che, anche coloro che parlano in dialetto, a poco a poco “perdono l’antico vocabolario”, dimenticando per sempre il significato di moltissime parole, modi di dire, costruzioni del periodo.

Anche se va riconosciuto che alcuni termini sono ormai obsoleti perché gli oggetti cui si riferivano sono stati cancellati dal progresso (es. il vomere dell’aratro che si chiamava “varsuro”), o perché del tutto desueti, come l’”ombra de vin”. 

Io per scelta da sempre mi esprimo normalmente in dialetto; ovviamente con chi mi può capire, non con i “foresti”.    

E l’ho sempre parlato anche quando era evidente che molti genitori veneti si esprimevano solamente “in lengua” con i figli perché credevano che avere i pargoli che parlavano l’italiano “facesse chic”, quasi che parlare dialetto fosse un segnale di appartenenza alle classi subalterne. 

E ho sempre trovato ridicolo sentire genitori parlare  normalmente fra loro in dialetto, ma passare all’italiano per comunicare con i figli (talvolta con un florilegio di strafalcioni che insultano la lingua di Dante). 

A tal proposito sono inorridito sentendo una mamma  chiedere al proprio pargolo “gai sete?”.  

Ma una volta mi è capitato di sentire anche “gero dietro fare un salto”. Splendide anche le nonne che chiamano i nipoti, cui è stato imposto dai genitori un nome straniero come “Michael”, con la variante veneta  “Màico”.

Ho sempre considerato una “fregnaccia” l’idea secondo cui i ragazzi che parlano dialetto in famiglia avrebbero difficoltà a scuola ad esprimersi e a scrivere in un italiano corretto.

Scrivere bene è semplicemente un dono di natura; scrivere e parlare correttamente dipende solo da studi seri e da buone letture.

Studi seri e buone letture che evidentemente non hanno avuto quegli aspiranti magistrati, ma anche quegli aspiranti insegnanti che, secondo le cronache, negli scritti dei concorsi riescono a commettere errori di sintassi, e financo di ortografia.

Quindi siamo seri, non attribuiamo all’uso del dialetto colpe che non ha; perché la verità è che se uno ha avuto una buona scuola (cosa oggi ormai piuttosto rara) può esprimersi altrettanto bene sia in lingua italiana che nell’idioma di “San Marco”.

Da lunghi anni c’è chi pronostica una progressiva sparizione dei dialetti, e con essi di quello veneto, perché si tratterebbe, a loro dire, di un idioma espressione di antiche tradizioni agro-pastorali, e di conseguenza destinato all’estinzione perché vecchio e superato.

Ho letto quindi con grande soddisfazione il recentissimo studio pubblicato dall’Osservatorio  sul Nord Est – Demos & Pi  appunto su “Nord Est ed il dialetto”.

Cosa hanno rilevato gli estensori?

In estrema sintesi che il dialetto esiste e resiste, e la trasversalità sociale che ne caratterizza l’uso ne fa ancora uno strumento di comunicazione diffuso a tutti i livelli, e fra tutte le classi sociali della nostra Regione.

Certo quella veneta è una società dinamica, con un alto tasso di immigrazione, non solo straniera, e ciò non può non influire nell’uso o meno del dialetto nella comunicazione fra le persone.

E così Demos segnala che nei luoghi di lavoro coloro che comunicano in dialetto sono ormai sotto la maggioranza assoluta.

Ma l’uso resiste invece nell’ambito familiare ed amicale: e così circa il 70% degli intervistati dichiara di parlare abitualmente dialetto in famiglia  e con gli amici.

Sicuramente influisce anche l’età, ed è quindi comprensibile che il dialetto sia l’idioma preferito dalle persone che superano i 65 anni, e meno  dai più giovani.

Scontata invece la maggiore diffusione della “lengua di San Marco” nei comuni più piccoli rispetto ai grandi agglomerati urbani, dove il rimescolamento della popolazione è maggiore. 

Tutto sommato la fotografia che ci fornisce l’Osservatorio del Nord Est è piuttosto rassicurante: il dialetto veneto è ancora l’idioma preferito dalla maggioranza dei Veneti, e se anche alcuni fra i più giovani lo snobbano, preferendo l’italiano, almeno lo capiscono, perché l’hanno sentito parlare ovunque fin dalla più tenera età.

Mi sono chiesto: perché il veneto resiste?

Io credo soprattutto per un motivo; perché fin dai tempi della Repubblica Serenissima, dello Stato da Mar e dello Stato da Tèra, la lingua veneta è  stata un elemento unificante.  

Nel senso che, diversamente da alte parti d’Italia e d’Europa, dove c’erano la lingua dei siòri e quella dei poarèti, quella delle classi alte e quella delle classi subalterne, il dialetto veneto è sempre stata la lingua di tutti, dal medico al farmacista, dal professore universitario al politico, un fattore che univa un po’ tutti su un terreno di comunicazione condivisa.

Sicuramente quell’elemento è ancora presente, anche se con il tempo sembra essere messo in discussione. 

L’ho già scritto, ma preferisco ribadirlo.

Lungi da me farne una questione politica, o peggio di una fantomatica identità etnica che caratterizzerebbe noi Veneti.

Io considero la lingua italiana forse lo strumento più importante di coesione della nostra Nazione, ma ciò non toglie che sono un altrettanto convinto sostenitore della salvaguardia del nostro dialetto veneto, per evitare che scompaia per sempre, che diventi una delle tante lingue morte da studiare sui libri.

L’idioma di San Marco per me fa parte del nostro millenario patrimonio culturale, e sappiate che bastano solo una manciata di generazioni che non lo parlino più per destinarlo ad un definitivo oblio. 

Quindi amiche ed amici “duri ai banchi!”, nella difesa del nostro dialèto!

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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