Germania: Il lascito avvelenato di Angela Merkel
Umberto Baldo
Chi pensa che la storia sia un susseguirsi di fatti e accadimenti slegati fra loro è del tutto fuori strada.
Anzi è vero il contrario, ed un esempio eclatante è che la seconda guerra mondiale non scoppiò così per caso, ma fu la diretta conseguenza delle condizioni di “pace” imposte alla Germania dalle Potenze vincitrici, talmente ingiuste a gravose da indurre i tedeschi ad affidare il proprio destino ad un pazzo criminale come Adolf Hitler.
Fatte le debite proporzioni, anche perché il contesto storico politico è diverso (almeno lo spero), la crisi attuale della politica tedesca, piaccia o non piaccia, trova le sue radici nell’era Merkel, in quei 16 anni, dal 2005 al 2021, in cui la Cancelliera venuta dalla Ddr resse incontrastata le sorti della Germania.
Sedici anni di celebrazioni, e sedici anni di errori.
Se oggi in Germania non c’è un clima di “damnatio memoriae” a carico della Merkel è solo perché nel dna teutonico è fortissimo il senso dell’autorità e della disciplina.
Ma è ormai palese che la lunga stagione “merkeliana” ha consegnato il Paese ad una crisi complessiva profonda, quasi tagliandogli ogni radici valoriale, e rendendolo sostanzialmente passivo, fibrillatorio, incapace di reagire.
L’attuale Cancelliere Scholz non è sicuramente un Churchill, e la sua colpa principale è stata quella, dopo l’uscita di scena della Merkel, di non aver compreso che era necessario un radicale cambio di direzione.
Invece Scholz, affiancato dal suo Ministro dell’Economia, il verde Robert Habeck, non solo hanno mantenuto le politiche fallimentari della Merkel, ma le hanno addirittura implementate.
Scholz, orgoglioso di essere stato fotografato più volte mentre faceva il gesto della mano a diamante tipico di Merkel, si è di fatto presentato come il suo naturale successore.
Errore fatale! Anche solo per il fatto che Scholz appartiene al mondo socialista, mentre la Merkel rappresentava la quintessenza della ”Germania democristiana”.
I liberali dell’Fdp hanno accettato questa situazione per troppo tempo, perdendo la fiducia di due terzi dei suoi elettori.
Nonostante abbia ottenuto un buon risultato alle elezioni federali del 2021, con l’11,5 per cento dei consensi, i sondaggi attuali collocano il partito tra il tre e il quattro per cento. In buona sostanza il Fdp avrebbe dovuto tagliare i ponti con la coalizione semaforo già da tempo.
Se oggi si andasse a votare, sulla base dei sondaggi vincerebbe la Cdu, il Partito che fu di Angela Merkel, con circa un terzo dei consensi.
Ma non è più lo stesso Partito, perché è guidato da Friedrich Merz, 68 anni, della Renania Settentrionale Vestfalia, già capogruppo al Bundestag nei primi anni Duemila.
Merz, da sempre rivale acerrimo dell’allora Cancelliera, (nel 2009 lasciò addirittura la politica per dedicarsi agli affari) ha come obiettivo dichiarato quello di cancellare quel che resta dell’era Merkel, e non solo per una ripicca personale.
Tre i punti già promessi da Merz agli elettori: liberalizzazioni dell’economia, aumento della spesa militare, e chiusura delle frontiere ai migranti (mi auguro questo comprenda anche la fine dei finanziamenti tedeschi alle Ong che battono la bandiera federale).
Come accennato, la crisi attuale della Germania è in grossa parte addebitabile ai sedici lunghi anni di governi della Cancelliera.
Non vi fu alcuna liberalizzazione dell’economia, alcun investimento in infrastrutture e a favore dell’innovazione, mentre le frontiere furono spalancate in un solo colpo a 800 mila profughi siriani nel 2015.
Tanto per capirci, le mancate riforme pesano ora anche sul mercato del credito; si pensi che le prime due Banche della Germania, terza economia mondiale, sono Deutsche Bank e Commerzbank. La prima vale in borsa meno di 31 miliardi di euro, la seconda ne valeva 14,2 prima che Unicredit la iniziasse a scalare (la nostra Banca Intesa viaggia intorno ai 70 miliardi).
Se dovessi descrivere con il senno di poi la politica “merkeliana” direi che si è trattato di mercantilismo di piccolo cabotaggio, attento alla situazione del momento, senza avere la visione del futuro che ebbero ad esempio Margareth Thatcher o Ronald Reagan, che effettivamente imposero una svolta epocale ad Inghilterra ed Usa (ricordate lo scontro senza quartiere della “Lady di ferro” con i minatori, il ritiro delle squadre inglesi dai campionati europei per punire il tifo violento, o l’attacco alle Falklands, sconsigliato persino dagli americani?).
Eppure buona parte di noi europei, io compreso, abbiamo invidiato per anni la Germania per avere Angela Merkel alla guida.
Tutti l’abbiamo lodata per il semplice fatto di averla vista per un periodo infinito alla guida della prima economia europea.
Il punto è che, vista con gli occhi di oggi, la sua era fu così lunga grazie al suo accontentare tutti e nessuno.
Tanto che in tedesco è nato un nuovo vocabolo che porta il suo nome: “merkeln”, un verbo poco lusinghiero, perché descrive quel temporeggiare tipico di chi non sa prendere subito una decisione.
Se ci pensate bene l’unica vera riforma introdotta in Germania fu quella del lavoro e degli ammortizzatori sociali, imposta nel 2004 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder, che pagò quella scelta perdendo la Cancelleria.
I frutti di quella riforma, fondamentale per ridare slancio alla Germania, furono raccolti dalla Merkel, (come quelli della Thatcher furono raccolti da Tony Blair) che per il resto credette che Berlino fosse immune dalle leggi dell’economia.
Mentre persino l’Italia cercava di uscire dalla crisi innovandosi, pur tra grosse ristrettezze di bilancio, la Germania Merkeliana ha dormito per anni sugli allori.
Nella sua visione fu sufficiente perseguire il pareggio di bilancio (“Schwarze Null”) per distinguersi in positivo dalle “cicale” (tipo l’Italia per capirci) e raccogliere la fiducia del mercato, che arrivò persino a comprare i bund a tassi negativi.
Una fiducia in parte mal riposta, perché se è vero che l’economia tedesca nel decennio pre-Covid andò relativamente bene, è altrettanto indubbio che poggiava le fondamenta su basi fragili: le esportazioni in Asia e l’energia importata a buon mercato dalla Russia.
Entrambi i fattori sono stati intaccati da pandemia, tensioni con la Cina, e guerra russo-ucraina.
Il triennio Scholz è stato caratterizzato dal disincanto circa le certezze che Merkel aveva costruito, o meglio circa gli equilibri temporanei che Berlino si era illusa fossero permanenti.
E così una dopo l’altra sono venute meno quelle certezze (forse in politica sarebbe meglio chiamarle scommesse):
Prima scommessa: l’economia tedesca sarebbe sempre volata sull’onda dell’exportdella sua industria, trascinata dai settori core(automobile, meccanica, chimica, farmaceutico per fare alcuni esempi), dove la qualità dei prodotti tedeschi era universalmente riconosciuta.
Seconda scommessa: mai più Berlino, grazie anche allo scudo Nato ed Usa, avrebbe dovuto preoccuparsi di problematiche securitarie. Da qui l’abbandono delle politiche della Difesa, fino ad arrivare al punto di avere un esercito dichiaratamente non in grado di affrontare un attacco esterno.
A cui seguiva, come corollario, la terza scommessa: la Germania avrebbe potuto sempre cavalcare la tigre dei Paesi rivali dell’Occidente in nome della convergenza economica; da cui l’abbraccio energetico con la Russia (“GeRussia”) e quello industriale con la Cina (“GeCina”).
Last but not least, l’Europaavrebbe sempre risposto agli stimoli della sua storica locomotiva.
Scholz, che ripeto non ha la stoffa del grande statista, si è trovato a fronteggiare il crollo di queste certezze, cadute come le tessere di un domino. E la debolezza politica del Cancelliere, unita all’inconsistenza politica dei suoi alleati, ha contribuito ad aggravare una situazione già compromessa, ma che adesso assume il carattere di una crisi di sistema.
Domani vedremo le conseguenze immediate di questa crisi, e dei suoi riflessi anche in Italia.
Umberto Baldo