Gli oceani ci sentono: l’inquinamento acustico minaccia la vita marina
di Anna Roscini
Le onde del mare che si
infrangono sugli scogli: quante volte ci siamo fatti trasportare da questo
suono rilassante e rassicurante. Non solo in superficie, nel profondo degli
oceani esiste un vero e proprio paesaggio sonoro, suoni che molte specie marine
usano per orientarsi, comunicare, scappare dai pericoli, trovare la via di
casa. Negli ultimi anni, sempre più, le rumorose attività umane hanno messo a
repentaglio questo delicato equilibrio. Sonor, navi, motori, trivelle, sondaggi
sismici, piattaforme: l’inquinamento acustico ha varie origini, ma gli stessi effetti
negativi sulla fauna marina. A confermarlo è “The soundscape of the
Anthropocene ocean”, uno degli studi più importanti mai realizzati nel campo e
pubblicato recentemente sulla rivista Science. Un team di venticinque scienziati
guidati da Carlos Duarte, docente presso la King Abdullah University in Arabia
Saudita, ha passato in rassegna migliaia di articoli scientifici riguardanti
proprio l’impatto dell’inquinamento acustico sull’ecosistema marino. Secondo il
90% degli studi, i rumori provocati dall’uomo hanno un impatto negativo sulla
vita dei mammiferi marini, mentre l’80% conferma che a risentirne sarebbero
anche pesci e invertebrati. Il suono, purtroppo, si propaga nell’acqua più
velocemente e più in profondità di quanto non faccia nell’aria. Il rumore,
proveniente da infrastrutture energetiche, indagini sismiche, piattaforme
petrolifere, esercitazioni militari, ma anche dalle navi e dai sonar, può
arrivare a compromettere la capacità uditiva di alcune specie e a provocare
cambiamenti comportamentali e fisiologici in altre. I suoni del mare sono fondamentali
per la sopravvivenza di numerose creature: delfini e balene comunicano a grandi
distanze proprio tramite i suoni che permettono loro di orientarsi e di evitare
i pericoli, mentre i pesci pagliaccio riescono a ritrovare la via di casa,
grazie al suono prodotto dalle onde contro la barriera corallina. Questi
piccoli pesci, nella prima fase della loro vita, vengono trascinati in forma di
larve nell’oceano aperto. Quando i rumori causati dalle attività umane coprono
i suoni della barriera corallina, i pesci pagliaccio non riescono a ritrovare
il proprio habitat.
Alcuni animali marini si sono adattati più di altri all’inquinamento acustico:
è il caso delle balene, che hanno imparato ad allontanarsi dalle rotte di navigazione
più trafficate. Non si può dire lo stesso di altre creature: i cetrioli di
mare, per esempio, si muovono troppo lentamente per sfuggire ai rumori più
assordanti. C’è poi chi sceglie di andarsene per sempre: nella Columbia Britannica,
dopo che le foche erano state allontanate dagli allevamenti di salmoni con dei
dispositivi sonori progettati per infastidirle, anche la popolazione di orche,
che le cacciava, era diminuita in modo significativo. Si tratta, per fortuna,
di una storia a lieto fine: dopo che i dispositivi sono stati rimossi, le foche
e le orche sono ritornate.
I rumori degli uomini rimangono tuttavia un fattore di forte stress per gli
animali marini, ma non è troppo tardi per invertire la rotta: durante il
lockdown, l’inquinamento acustico negli oceani si è ridotto di circa il 20% e
alcuni grandi mammiferi marini sono tornati a popolare zone vicino alle coste. Con
il fermo delle attività, la salute degli oceani è subito migliorata. Molte
soluzioni all’inquinamento acustico, in realtà, esistono già: basterebbe
rallentare la velocità delle navi cargo e modificare alcune rotte di
navigazione, sostituire le eliche più rumorose, adottare tecnologie
insonorizzanti e isolanti. È tempo di ascoltare l’oceano e abbassare il volume
delle nostre attività.