4 Aprile 2022 - 17.27

Gli Oscar sono diventati una pagliacciata insopportabile e mediocre: uccisi dal politicamente corretto

di Alessandro Cammarano

Sarà un articolo “scorretto”, meglio chiarirlo subito così da permettere a coloro i quali potessero sentirsene offesi di fermarsi qui nella lettura; ma quando è troppo è troppo.

Partiamo da un paradosso: nel 1536 il pittore Daniele da Volterra detto “Il Braghettone” fu chiamato, all’indomani del Concilio di Trento, a mettere mano al “Giudizio Universale” che Michelangelo aveva affrescato nella Cappella Sistina.

Il Braghettone dunque coprì diligentemente le pudenda degli attori dell’affresco con discrete foglie di fico, nascondendole così all’occhio pudico di chierici e cardinali, senza remora alcuna nello scempiare l’opera sublime del Buonarroti.

All’epoca tutto ciò era normale, se un quadro non piaceva lo si modificava con buona pace dell’autore: a noi pare pratica detestabile ma per restauratori della fede secondo i dettami tridentini il problema neppure si poneva.

Se Michelangelo avesse dipinto il Giudizio Universale oggi le critiche sarebbero egualmente piovute copiose, ma, seguendo un altro schema di pensiero secondo cui legioni di intellettuali da Bar sport sarebbero più o meno di questo tono: “I diavoli sono deformi e questo è offensivo nei confronti dei diversamente abili”, o ancora “Ci sono più nudi femminili che maschili! che abominevole discriminazione sessista!” o anche “I piselli dei dannati – per altro oggetto delle attenzioni pittoriche del suddetto Braghettone – non hanno tutti le stesse dimensioni! protestiamo a nome dei sottodotati!!!”.

Siccome oramai la paura di essere tacciati di “politicamente scorretti” è dilagante, allora si è deciso di strabordare in direzione di un “politicamente corretto” sempre più stucchevole e codino.

Prova plastica di tutto ciò è la Notte degli Oscar che di anno in anno si fa sempre più triste e spenta, il tutto in nome della correttezza.

Ci vorrebbero una ventina di articoli per raccontare la decadenza del parco attori presenti, che sembrano rivaleggiare tra di loro più per le camicie sgualcite – alcuni decidono di non indossarle nemmeno esibendo tamarrissime giacche glitterate su petto nudo – o per vestiti che definire da sera è fantascienza tanto sono mal concepiti e importabili, ma forse è meglio glissare.

Se sono bravi – e con loro i colleghi registi, scenografi, costumisti, fotografi, ecc. – in fondo chi siamo noi per giudicarli al di là dell’interpretazione che ha valso loro la candidatura alla statuetta più famosa del mondo?

Il problema è che fino a qualche anno fa oltre che passerella di eleganza – facciamo “glamour” che fa più Hollywood – gli Academy Awards erano premi all’eccellenza pur fotografando, almeno dagli anni Settanta del secolo scorso, le tendenze non solo del cinema in sé ma anche argomentazioni politiche degne di essere portate alla ribalta: l’impegno, insomma.

Rappresentazione plastica di tutto questo l’ultima Notte degli Oscar – una delle più loffie di sempre – che, al netto di una cornice parrocchiale per quanto riguarda l’allestimento scenico, ha segnato uno dei massimi momenti di applicazione del famigerato Manuale Cencelli applicato alla Decima Musa.

Innanzitutto le tre conduttrici erano non solo donne, ma anche di età ed etnie differenti e ben distinguibili; se fossero brave o no – e lo erano così così – non è importato a nessuno, bastava salvare la forma.

A seguire tutta una serie di premi assegnati “per categoria” che non risponde più a quella primitiva dell’Academy, ma sottostà al “politically correct di cui sopra”.

Miglior film è ancora una volta un filmetto – Coda – remake di un altrettanto garbato filmino francese, “La Famiglia Bélier”, che vinche anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, sostanzialmente perché si parla di una ragazza udente e canterina cresciuta in una famiglia di non udenti.

Negli anni precedenti la vittoria se l’era aggiudicata “Moonlight”, protagonisti due ragazzi neri e gay, “La forma dell’acqua”, con una sordomuta e una creatura marina e antropomorfa e “Nomadland”, eroina una clochard in giro per gli States.

A contendere la palma ai vincitori c’erano film di valore pari o superiori, ma non hanno avuto chance sulla “diversità” che tra l’altro ha il sommo potere di placare le coscienze non immacolate di molti.

La meravigliosa Ariana DeBose – voce e presenza da urlo – ha vinto come migliore attrice non protagonista per “West Side Story”, ennesimo capolavoro di Spielberg, e il suo discorso è stato interamente incentrato sulla sua appartenenza alla comunita LBGTQ+. Io vorrei vivere in un mondo in cui essere gay, sordo, diversamente alto, autistico fosse semplicemente “normale”.

Stesso discorso per Troy Kotsur, strepitoso attore non udente, che si porta a casa la statuetta come non protagonista in “Coda”.

Da qui alle quote alla Cencelli il passo non è poi così lungo; non vorrei si arrivasse – dando così voce a personcine tipo Simone Pillon & Co. – a pesare i casting con il bilancino cosi che al primo giorno di lavorazione non sia tutto iun “Ciao! io sono qui perché rientro nella percentuale transgender”o “Meno male che mi hanno chiamato; il personaggio non esisteva ma serviva giusto un malato di OCD perché il film avesse il via libera dalla produzione.”.

Se mi avete letto fino a qui adesso potete anche odiarmi; posso sempre sperare in una nomination ai David di Donatello nella categoria “brutte persone”.

Alessandro Cammarano

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