“Governare è soprattutto nominare”
Qualche giorno fa abbiamo assistito sui media ed in televisione ad uno psicodramma dell’assurdo, conseguente al fatto che il Consiglio di Amministrazione del Teatro di Roma ha nominato il regista teatrale Luca De Fusco Direttore Generale della relativa Fondazione, che amministra quattro importanti teatri della città: l’Argentina, il Torlonia, l’India e, una volta finito il restauro al momento in corso, il Valle.
Badate bene che nessuno ha messo in dubbio che si tratti di un artista e di un professionista di indiscusso valore; l’oggetto del contendere è sempre lo stesso: la matrice ideologica del nominato, meglio ancora il fatto che ad elevarlo agli onori carica non sia stato il solito coacervo romano di “frequentatori delle terrazze romane”, quasi sempre di sentiment gauchista.
Ecco allora che la nomina di Fusco, che fra l’altro in una recente intervista ha ben chiarito di non essere “di destra”, diventa quasi un blitz del Governo (cosa c’entri non si sa) che ha osato violare un santuario della cultura capitolina.
Stupisce che fra chi protesta ci sia l’attuale Sindaco di Roma Gualtieri, manco questa del Teatro fosse la “battaglia delle battaglie”, in una città dove i cinghiali scorrazzano fra i cumuli di immondizie.
Certo ci sarebbe da disquisire sul fatto che la sinistra pretenda di ottenere “poltrone” anche quando è all’opposizione, ma questo è un altro capitolo della “Repubblica di Pulcinella”.
Ma di cosa stiamo parlando in fondo?
Di un fenomeno che è ovunque connaturale al potere, ma che in Italia in una certa fase politica ha raggiunto addirittura il carattere di una scienza.
Per inquadrare il tema io partirei dalle parole di un personaggio che ha attraversato la storia della Repubblica fin dagli albori, e la cui arguzia è diventata proverbiale.
Il suo nome era Giulio Andreotti, che Dio lo abbia in gloria, e fra le sue “frasi celebri” si ricorda la seguente: “Governare, infatti, è soprattutto nominare”.
Credetemi che questa massima dovrebbe essere scolpita sui Palazzi di Governo di tutti i Paesi del mondo, perché possono raccontarla come vogliono, ma nessun Partito, nessun Esecutivo, affiderà mai una carica di rilievo ad un esponente che non sia politicamente affine.
Spero non sia necessario che vi spieghi il perché; ma se proprio lo volete sapere, in primis è naturale che chi comanda voglia premiare i propri sostenitori, i propri sodali, e poi perché ogni carica porta con sé la possibilità di “favorire” altre persone, e da qui si creano quelle che gli antichi romani chiamavano clientele, che al momento delle elezioni possono trasformarsi in voti.
Il fenomeno è stato battezzato nel BelPaese con la parola “lottizzazione”, termine coniato nel 1968 dal compianto Alberto Ronchey in una lettera indirizzata ad Ugo La Malfa (sì, Ronchey era Repubblicano).
Il problema fin da subito fu quello che gli esclusi denunciano l’altrui lottizzazione, guardandosi bene dall’ammettere che se avessero buscato anche loro qualche posto di potere non sarebbe stata lottizzazione, bensì esercizio del pluralismo.
Ma si tratta, detto con sincerità, di critiche che trasudano moralismo e ipocrisia, se è vero che lo spoils system ministeriale (ma lo stesso vale per le nomine governative ai vertici delle società pubbliche) diventa cattivo e poco democratico, guarda caso, solo quando lo praticano gli altri.
Ragazzi non c’è da stupirsi; in fondo è sempre il problema della “doppia morale”; per cui se la stessa cosa viene fatta da sinistra è corretta, ma se invece a farla è la destra diventa subito “da allarme democratico”.
Vale anche all’incontrario sia chiaro, quando a lottizzare è la sinistra!
E’ bene sappiate che non c’è settore della vita politica che non sia oggetto di lottizzazione; da intendersi, ripeto per non essere “frainteso”, come il piazzare nei posti di vertice anche delle aziende pubbliche, ed in qualunque altro ruolo vi venga in mente, i cosiddetti “amici” o anche “amici degli amici”.
La sublimazione della lottizzazione, quella «scientifica» o «perfetta», in quanto destinata a coinvolgere la maggior forza dell´opposizione di allora, cioè il Pci, ebbe come scenario nella prima Repubblica la Televisione pubblica, la Rai.
Da lì infatti venne teorizzata e applicata la logica spartitoria.
Bisogna infatti partire dal cosiddetto “patto della “Camilluccia” da cui si uscì con uno schema tutto sommato semplice: i democristiani si prendevano la prima rete, i socialisti la seconda, i comunisti la nascente terza rete, ai tre partitini laici (Pri, Pli e Psdi), piccoli ma necessari a mantenere gli equilibri del “pentapartito”, spettava il terzo canale radiofonico più qualche poltrona trasversale alle reti.
Si inaugurava così l’epoca di Tele Nusco (il natio borgo selvaggio di Ciriaco De Mita), Tele Craxi e Tele Kabul; così la stampa aveva ribattezzato i tre telegiornali, ognuno con il suo padrone di riferimento, fisiologicamente faziosi, ma in fondo plurali visto che pentapartito e Dc (più il Pci) rappresentavano sommati quasi il 90% dell’elettorato.
A voler essere precisi non va sottaciuto che nel feudo democristiano di Rai 1 andava in scena un complicatissimo alternarsi di nomine collegate ai rapporti di forza delle varie correnti; e così si parlava di giornalisti o dirigenti andreottiani, fanfaniani, forlaniani, demitiani ecc. (del Manuale Cencelli, vero “vangelo” della lottizzazione applicata al Governo propriamente detto, vi parlerò magari un’altra volta).
Capite bene che questo sistema stava in piedi perché in fondo accontentava tutti, perché garantiva una rappresentanza alla varie sensibilità politiche del Paese; ma non poté reggere allo sconquasso provocato dalla scomparsa dei primattori politici, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista ed i Partiti Laici, provocata da “Mani Pulite”, oltre che all’affermarsi, con l’avvento di Silvio Berlusconi, della contrapposizione secca centro destra- centro sinistra.
Perché è evidente che se la logica politica diventa quello dello scontro frontale, come avviene nelle guerre vere le spoglie sono tutte di chi vince, ed ecco che il termine lottizzazione è oggi ormai usato a sproposito, perché in realtà chi vince le elezioni prende tutto.
Lo ha fatto per primo il Cavaliere, la ha fatto poi Matteo Renzi, e lo sta facendo anche Giorgia Meloni.
Solo che adesso ovviamente le regola del “Vae victis” (il “Guai ai vinti” di Brenno) non vale solo per la Rai, ma per ogni settore in qualche modo controllato dal Governo e dalla maggioranza che lo sostiene.
E questo “cambio di sensibilità” lo si è visto ad un certo punto quando si è abbandonata la tradizione non disprezzabile della prima Repubblica di assegnare la Presidenza di uno dei due rami del Parlamento (Camera o Senato) ad un esponente dell’opposizione.
Ovviamente qualcuno pensa che la logica del “prendo tutto”, cioè che al detentore pro-tempore del potere politico, legittimato dal consenso popolare, spetti scegliersi il personale burocratico ed i funzionari statali secondo criteri di fedeltà personale e partitica, sia poco democratica.
Legittimo, s’intende!
Ma non va dimenticato che nella più grande democrazia del mondo (almeno lo è stata fino ad ora) è sempre stata considerata assolutamente normale la cosiddetta pratica dello Spoils System, che prevede che negli Usa gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambino con il cambiare del Governo.
Per quanto attiene il nostro Paese, come girano le cose lo sanno tutti, che la politicizzazione delle nomine spesso faccia prevalere l’affiliazione sul merito è quasi la regola, e la pervasività della politica in tutto ciò che attiene la sfera pubblica, dalla Sanità ai Teatri alle Cattedre Universitarie, è come un fiume carsico che ogni tanto affiora in qualche inchiesta della Magistratura, per poi inabissarsi nuovamente nei meandri del Potere.
In fondo, a ben pensarci, si torna sempre alla saggezza di Giulio Andreotti, e al suo “Governare è soprattutto nominare”.
Umberto Baldo