Il “contrordine compagni“ di Trump sugli Iphone

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Umberto Baldo
Sabato le Agenzie hanno battuto la notizia che Donald Trump ha deciso di esentare gli smartphone, i computer e gli altri dispositivi elettronici dazi dai reciproci. Le esclusioni, riportava l’agenzia Bloomberg citando la gazzetta ufficiale, riguardano anche gli hard drive, i processori per i computer e i chip per la memoria, ovvero prodotti elettronici molto popolari che non sono prodotti negli Stati Uniti.
State tirando un sospiro di sollievo? Siete dei fedelissimi dei prodotti Apple, e temevate che il vostro prossimo Iphone potesse costare fino a 3.500 euro?
Roba da dover fare un mutuo per acquistarlo?
Ma non avete ancora realizzato che le promesse dei politici sono molto spesso delle fanfaluche sparate in campagna elettorale per carpire il voto a ingenui e minchioni disposti a crederci?
Avete veramente pensato che Giorgia Meloni avrebbe tolto le accise dai carburanti, tanto per fare un solo esempio, però emblematico?
Dai ragazzi, ormai dovremmo essere vaccinati delle fanfaronate e dalle bugie spacciate per verità!
E sicuramente anche gli americani che hanno votato per “Ciuffo Biondo” hanno creduto che la produzione di uno dei simboli degli Usa, appunto l’Iphone, sarebbe rientrata nei confini nazionali con un semplice schioccar di dita.
Certo, può anche essere che Donald Trump ci creda al cosiddetto “reshoring”; d’altronde lui nella vita ha fatto solo lo speculatore immobiliare, e dal 1991 ad oggi diverse società da lui controllate hanno dichiarato fallimento in ben quattro occasioni.
Sarebbe quindi comprensibile e perdonabile che avesse una visione, come dire, “semplificata” di dinamiche industriali piuttosto complesse; quello che lo rende ridicolo è il suo ego smisurato, tale da fargli pensare che qualunque cazzata che dice sia poi concretizzabile.
Ma politicamente non c’è dubbio che riportare la produzione dell’ IPhone negli Stati Uniti rappresenterebbe una vittoria simbolica e politica di primo piano.
Il dispositivo di punta di Apple, tra i prodotti tecnologici più venduti nella storia, diventerebbe così un emblema della riuscita della sua politica dei dazi.
Ma la realtà è ben diversa dai sogni o dalle promesse elettorali!
A volerla dire tutta, quella di riportare la produzione del “re degli smartphone” negli States non è neanche un’idea originale del Tycoon.
Fu lo stesso Steve Jobs, fondatore di Apple, a spiegare già nel 2010 all’allora presidente Obama perché la produzione americana fosse impraticabile.
Durante una cena alla Silicon Valley, Jobs fu assai diretto: “Quei posti di lavoro non torneranno più“.
Il motivo non riguardava solo i costi, ma un intero ecosistema manifatturiero che gli Stati Uniti hanno perso decenni fa.
E Tim Cook, attuale CEO di Apple, ha ribadito questo concetto in diverse occasioni pubbliche.
In un intervento del 2017 presso il Fortune Global Forum, Cook spiegò che: “C’è molta confusione su questo punto. L’opinione comune è che le aziende vadano in Cina per il basso costo del lavoro. Non so a quale parte della Cina si guardi, ma la verità è che la Cina ha smesso da anni di essere un Paese a basso costo del lavoro. Il motivo è un altro: le competenze”.
E per essere più chiaro aggiunse: “Negli Stati Uniti potremmo forse riempire una stanza con ingegneri specializzati negli utensili. In Cinasi possono riempire i campi da football. Il livello di specializzazione professionale è enorme”.
Quindi era noto da anni e anni che i prodotti Apple richiedono un livello di precisione e di capacità avanzata nella lavorazione degli strumenti e dei materiali che in Cina è disponibile su larga scala, ma che in America non c’è più.
Ecco perché glianalisti del settore hanno espresso forti dubbi sulla fattibilità di una produzione di iPhone interamente americana, come auspicata da Trump, per il semplice motivo che i costi per Apple schizzerebbero alle stelle, ed un iPhone made in USA potrebbe arrivare a costare 3.500 dollari.
La complessità della supply chain di Apple è evidenziata dal fatto chel’azienda ha un elenco di fornitori lungo 27 pagine, distribuiti in oltre 50 Paesi, senza contare i minerali rari provenienti da 79 Stati, molti dei quali non reperibili negli Stati Uniti.
Quindi nonostante la pressione politica, lo scenario ipotizzato dal Presidente appare tecnicamente ed economicamente impraticabile.
La complessità della catena di fornitura di Apple, affinata nel corso di decenni, rende praticamente impossibile un trasferimento su larga scala della produzione di iPhone negli Stati Uniti, e anche limitando il concetto di “produzione” alla sola fase di assemblaggio finale, come accennato gli Usa non disporrebbero comunque dei lavoratori qualificati necessari.
Non è che in Apple non abbiano capito dove si vorrebbe andare a parare, ed infatti come prova della volontà dell’azienda di “tornare a casa” hanno annunciato un investimento negli Usa per 500 miliardi di dollari.
Tuttavia, questo investimento riguarda in realtà una diversa area operativa: la produzione di server destinati al sistema Private Cloud Compute di Apple, non gli iPhone.
Si tratta di prodotti con numeri contenuti, e non destinati al mercato consumer, quindi molto diversi per scala e complessità dalla produzione di smartphone.
I capi della “Mela morsicata” hanno già subito le pressioni di Trump durante il primo mandato presidenziale, ed infatti allora Apple provò ad avviare la realizzazione del Mac Pro in Texas.
Ma questo unico tentativo di produrre negli Usa si rivelò un fallimento logistico ed industriale.
Non dimenticate infatti che, pur essendo gli Iphone targati Apple, i chip arrivano soprattutto dalla sudcoreana Samsung e dalla taiwanese TSMC, tra i maggiori produttori mondiali di semiconduttori, mentre per la produzione delle batterie Apple si appoggia alla cinese Amperex Technology Limited, dopo essersi rifornita a lungo da Sunwoda Electronic, sempre cinese.
Riassumendo, i motivi che renderebbero lungo e costoso un reshoring sono il costo della manodopera, della logistica e delle materie prime, che renderebbero il prezzo di un iPhone “Made in USA” insostenibile, potenzialmente il doppio rispetto ad oggi.
Ai suoi tempi (è mancato nel 2011) Jobs aveva chiarito che Apple necessitava di 30.000 ingegneri per supportare i 700.000 operai nelle fabbriche cinesi, un numero di persone qualificate impossibile da trovare negli Usa.
Ma rimanendo alla pura logistica, le gigantesche fabbriche cinesi come quella di Zhengzhou, soprannominata ‘iPhone City’, ospitano centinaia di migliaia di lavoratori e dispongono di scuole, dormitori, palestre e strutture mediche.
Quale città americana sarebbe pronta a fermarsi completamente per costruire solo iPhone?
Tanto per fare un esempio, a Boston vivono oltre 500.000 persone: per cui tutta la città dovrebbe smettere di fare qualsiasi altra cosa per assemblare telefoni.
Non è che Apple sottovaluti i problemi della concentrazione, ed infatti negli ultimi anni ha ridotto la quota di Iphone prodotti in Cina sotto il 90%, spostando le produzioni anche in India, Thailandia, Vietnam, Malesia, Indonesia.
Ma pur con tutta la buona volontà, al momento l’India produce 35 milioni di unità; Apple vende oltre 220 milioni di iPhone all’anno, in vari modelli, ciascuno declinato in più varianti di colore e memoria.
Ne consegue che la complessità del prodotto rende imprescindibile la scala produttiva che solo la Cina oggi è in grado di offrire.
Quindi?
Quindi francamente non mi ha stupito più di tanto la notizia dell’esenzione (sembra comunque temporanea) degli smartphone dai dazi, perché è solo un esercizio di buon senso, e sono certo che altri aggiustamenti seguiranno a mano a mano che il Tycoon sbatterà il grugno sulla realtà.
Ma non crediate che, nonostante le retromarce, non sia successo nulla.
Non mi stancherò mai di dire che Trump con le sue uscite, le sue forzature, ed i suoi dazi, ha fatto uscire il dentifricio dal tubetto, e rimetterlo dentro è semplicemente impossibile.
Siate certi che la storia non finisce qui.
Umberto Baldo