Il patriarcato? Anche “colpa” delle donne
di Alessandro Cammarano
Lo scorso 25 novembre è stato “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne e il focus su uno dei più allarmanti tra gli aspetti che caratterizzano la società si è, tra l’altro incentrato sul tutt’ora esistente e persistente patriarcato.
Il tema è spinoso perché il concetto è saldamente radicato anche ed ancora nella cultura e nella società occidentale, che vede, purtroppo assegnare il potere principalmente agli uomini, consolidandolo attraverso norme, tradizioni e aspettative di genere.
Sembra impossibile, ma in tutto questo sussiste un paradosso che è stato messo bene in luce dalla scrittrice Karen Ricci, autrice di “Cara, sei maschilista. E se non accettassimo più gli stereotipi?”, da quale è poi nato anche un seguitissimo podcast.
La Ricci, in un contrasto propositivo con il mainstream, pone una questione niente affatto secondaria, puntando il dito direttamente contro una parte di donne – e questo nell’ambito della cultura occidentale – che diventano inconsapevolmente o intenzionalmente complici nel perpetuarlo.
Una delle manifestazioni più evidenti di questa complicità si verifica quando madri, mogli o altre figure femminili difendono i comportamenti problematici di figli, mariti o altri uomini della loro vita, anche quando tali comportamenti sono chiaramente ingiusti, violenti o discriminatori.
Il fenomeno è comunque complesso: la complicità femminile nel patriarcato non deve essere confusa con un’accettazione consapevole o deliberata di questa struttura di potere, perché spesso è il risultato di una socializzazione profonda e radicata, che insegna alle donne a sacrificarsi, a proteggere gli uomini e a subordinare i propri bisogni e diritti a quelli della famiglia o della comunità.
Questo processo inizia spesso nell’infanzia e si rafforza attraverso le generazioni, e le donne che difendono in modo incondizionato i loro figli o mariti non lo fanno necessariamente per cattiveria o malizia, ma perché credono di agire nel loro interesse o perché sentono di non avere altre opzioni.
Un esempio paradigmatico è rappresentato dalle madri che giustificano o minimizzano i comportamenti violenti o irresponsabili dei figli maschi.
In molti contesti culturali, i figli vengono considerati il fulcro del futuro familiare, e le madri possono sentirsi responsabili del loro successo, anche a scapito dell’etica o della giustizia.
Questo può portarle a negare che il proprio figlio abbia commesso atti di violenza, anche in presenza di prove evidenti e nei casi peggiori a colpevolizzare le vittime – “Non avresti dovuto provocarlo”, “Era vestita in modo inappropriato” – o ancora a minimizzare i comportamenti problematici con frasi come “È solo un ragazzo”, “Sono cose da uomini”, o “Imparerà crescendo”: no, non è solo un ragazzo e crescendo non imparerà, perché questo tipo di atteggiamento non solo protegge il figlio dalle conseguenze delle sue azioni, ma contribuisce anche a perpetuare una cultura di impunità per gli uomini, rafforzando il patriarcato.
Non solo i figli che, per antonomasia “So’ piezz’e core”, ma allo stesso modo, alcune donne scelgono di difendere i loro mariti o partner anche quando questi si comportano in modo irresponsabile o oppressivo, o peggio ancora, violento.
Anche il denaro fa la sua parte, in negativo, perché troppo spesso le donne – per fortuna sempre meno – che dipendono finanziariamente o emotivamente dai loro partner possono sentirsi incapaci di opporsi o denunciare comportamenti scorretti.
Ancor peggio fa l’internalizzazione delle norme patriarcali con alcune donne che credono davvero che il loro ruolo sia quello di sostenere e giustificare i mariti, indipendentemente da ciò che accade.
In queste situazioni, le donne possono arrivare a difendere apertamente uomini che commettono atti di violenza domestica, discriminazione sul lavoro o altre forme di abuso di potere; questo non solo danneggia altre donne, ma perpetua l’idea che gli uomini abbiano un diritto “naturale” a un trattamento privilegiato.
Ma perché accade tutto ciò? Semplicemente perché la complicità femminile nel patriarcato si radica in fattori complessi, primo tra tutti la cosiddetta socializzazione patriarcale, per cui le donne crescono spesso con il messaggio di dover essere le custodi della famiglia, prendersi cura degli uomini e garantire la loro felicità, anche a discapito della propria.
Determinante è pure la paura delle conseguenze perché contraddire un uomo può portare a ritorsioni, esclusione sociale o persino violenza e perciò molte donne, dunque, scelgono di assecondare per proteggere se stesse o i propri figli.
Per giunta in contesti in cui le donne non hanno accesso a risorse economiche, educative o legali, la difesa degli uomini può sembrare, tragicamente, l’unica strada percorribile.
È brutto dirlo, ma ove le donne sostengono attivamente il patriarcato, contribuiscono a mantenere lo status quo e questo può avere effetti devastanti sia per le singole donne sia per la società nel suo insieme, perché difendere i comportamenti maschili tossici incoraggia altri uomini a fare lo stesso, creando un ciclo di abuso e impunità; inoltre le donne che difendono gli uomini a scapito delle vittime femminili minano alla base la possibilità di costruire un movimento collettivo contro il patriarcato, consolidandone ulteriormente le strutture oppressive in una sorta di complicità perversa.
La spirale si può rompere, innanzitutto sensibilizzando le donne riguardo ai meccanismi del patriarcato e sul loro ruolo, spesso inconsapevole, nel sostenerlo.
È inoltre necessario creare reti di supporto per le donne che vogliono opporsi ai comportamenti tossici dei loro familiari. E infine promuovere un cambiamento culturale che valorizzi la responsabilità individuale e condanni l’impunità per gli uomini.
Non è facile, anzi, ma cambiare si può e si deve, anche facendo scegliere dal piedistallo figli protervi, mariti padroni e datori di lavoro prevaricanti.