9 Maggio 2024 - 10.09

JobS Act e art. 18: il “Piccolo mondo antico” della sinistra!

Umberto Baldo

Io penso che quando in politica mancano idee nuove, quando non si riesce a rispondere compiutamente alle esigenze dell’oggi, spesso si finisce per volgere lo sguardo all’indietro, verso tempi giudicati migliori o addirittura idealizzati, riesumando vecchie parole d’ordine e vecchi “totem”.

Credo che ciò stia accadendo in questa fase nel campo della sinistra italiana, dove un vecchio totem della Cgil, il cosiddetto Jobs Act, che da anni è come una lisca conficcata nella gola dei rappresentanti di questo Sindacato, viene ora ripreso da Maurizio Landini al fine di promuovere un Referendum per l’abrogazione di alcuni articoli (evidentemente non gli è bastata la bocciatura del quesito sull’art.18 da parte della Corte Costituzionale nel 2017).

Ma vedete, per certa “gauche” di matrice sindacale il Jobs Act non è solo una legge fra le tante che hanno tentato di regolare il mercato del lavoro; è un qualcosa  di più, è un vulnus, ed il “no al Jobs Act” è una sorta di parola d’ordine per cercare di infliggere la definitiva  “damnatio memoriae” a colui che l’ha promosso e fatto approvare, Matteo Renzi. 

Pazienza se si tratta di una battaglia di retroguardia, lontana anni luce dalla concretezza dei problemi dell’oggi; pazienza se non servirà a nulla perché quella riforma è stata in gran parte smontata, tra successive riforme e sentenze della Consulta!

Tutto ciò non ha alcuna importanza, perché si tratta appunto di un “Totem”, ed i totem, si sa, o si adorano o si abbattono. 

Ma andando all’essenza del problema, il vulnus cui accennavo prima è rappresentato in particolare dal “mitico art. 18”, quello sui licenziamenti, la cui abolizione è stata subita come un attacco epocale ed insanabile ai diritti dei lavoratori.

Tanto per rinfrescare le idee, e per spiegarlo ai più giovani che magari non sanno neppure di cosa si parli, il diritto al reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa era un’anomalia tutta italiana, visto che in nessun altro Paese europeo c’era mai stato l’obbligo per legge del reintegro, ma solo un’opzione per l’indennizzo.

Eppure questa “anomalia” tutta italica, introdotta nel 1970 dallo Statuto dei Lavoratori, nonostante critiche e dubbi resistette per quasi 50 anni a tutti i tentativi di modifica, compresi due Referendum, falliti entrambi per mancato raggiungimento del Quorum; uno promosso dal Partito Radicale per abrogarlo, ed uno da Rifondazione Comunista per estenderlo anche alle piccole imprese.

Non credo sia opportuno tediarvi illustrandovi tutte le ragioni che sconsiglierebbero il “passo del gambero” della reintroduzione dell’art.18.

Potrei farlo intendiamoci, ma francamente ritengo sarebbe del tutto inutile, proprio perché le motivazioni che spingono Landini a chiederne il ripristino hanno una base eminentemente ideologica, e si sa che contro i pregiudizi qualsiasi razionalità finisce per infrangersi. 

MI limito quindi a concentrarmi sugli aspetti più eminentemente politici della questione, magari anche con qualche considerazione di politica del lavoro.

E quindi devo necessariamente partire che da una considerazione di carattere generale; quella che le barricate della Cgil, che allora paventava che la “legge di Renzi” avrebbe dato la stura ad un boom di licenziamenti, furono del tutto inutili, perché quelle previsioni catastrofiche non si realizzarono assolutamente. 

Ma soprattutto sottolineando che dal 2015, quando il Jobs Act fu approvato, il mondo del lavoro è profondamente cambiato. 

Ed è talmente cambiato che negli ultimi anni a dominare il mercato sono state le dimissioni volontarie, e non certamente i licenziamenti.

Tanto che oggi per la maggior parte delle aziende il timore principale non è il lavoratore che resta al lavoro, ma quello che decide di andarsene.

Ecco perché le aziende si tengono stretti i dipendenti che già hanno, andandoli a blindare con contratti stabili, con qualche aumento retributivo, o con il welfare aziendale.

Penso capiti anche a voi il leggere sempre più di frequente che in realtà oggi sono le imprese che fanno fatica a trovare lavoratori, al punto che molte di esse sono a favore di maggiore immigrazione, e alcune, per garantirsi la necessaria manodopera, si sono dedicate anche alla professionalizzazione degli immigrati 

Il fenomeno è iniziato da qualche anno, ma è diventato sempre più evidente dopo il Covid, che ha indotto molti lavoratori a riflettere sulla  qualità della vita, e a fare altre scelte lavorative; ma è ingigantito anche dal fattore “calo demografico”, che inevitabilmente riduce  l’offerta di lavoro giovanile. 

Questa spiega perché negli ultimi mesi l’occupazione sta toccando quote record e, guarda caso, contrariamente alla narrazione della Cgil circa un aumento della precarizzazione del lavoro, a crescere sono i contratti a tempo indeterminato. 

Non lo dico io eh!   Basta consultare il sistema informativo del Ministero del Lavoro  e delle Politiche Sociali, e spero  nessuno pensi che il Ministero metta nero su bianco dei dati falsi. 

Oltre tutto si tratta di numeri che, secondo esperti ed Istituti di ricerca, descrivono una dinamica ormai strutturale: e quindi la fotografia dell’oggi ci mostra un’Italia in cui ci sono centinaia di posti di lavoro vacanti, per i quali i datori di lavoro non riescono a trovare manodopera con le necessarie competenze.

Intendiamoci, non sono così ottuso da negare che il mercato del lavoro italiano soffra di qualche problema; ma non si tratta certo dei licenziamenti, bensì delle basse remunerazioni, della difficoltà di far coincidere domanda e offerta di lavoro sia sul piano professionale che su quello territoriale, della scarsa capacità di assorbire manodopera femminile, della poca trasparenza per i giovani al primo impiego, dell’ eccesso di familismo nella ricerca del lavoro e nella progressione di carriera, e potrei continuare. 

Se poi ci concentriamo sul dato anagrafico, sono pronto a scommettere che i nostri giovani dell’art. 18 se ne fregano altamente, e giudicano queste discussioni  cose da marziani.

I ragazzi hanno altre paure, altre ansie, legate prevalentemente ai bassi livelli salariali (tanto che buona parte non esclude di emigrare all’estero), alla difficoltà di comprare casa, a mettere su famiglia, a fare figli ecc.

Tutto il resto io lo giudico un residuo culturale di epigoni del comunismo, con il volto rivolto più al “sole di ieri” invece che a quello dell’”avvenire”.

Un “avvenire” con cui  la Repubblica fondata sul lavoro dovrà fare i conti con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale.  Solo per fare un piccolo esempio Nielsen Media Italy ha da poco annunciato 60 licenziamenti tra i lavoratori dell’Auditel, scesi in sciopero a causa di “delocalizzazioni e mansioni appaltate all’Intelligenza Artificiale”. Si tratta della terza procedura di licenziamento collettivo in poco più di un anno, che ha visto interi comparti produttivi “smantellati, e delocalizzati in India, Messico, Polonia e Albania.

Questo è il futuro con cui giocoforza dovrà confrontarsi il Sindacato, non quello dell’art.18, che evidenzia nostalgie verso idealizzati bei tempi andati.  

Il problema, per loro s’intende non per me, è che l’iniziativa referendaria di Landini ha indotto Elly Schlein ad accodarsi (sempre comunque dopo Giuseppe Conte), ponendo la sua firma sulla richiesta, e ciò nonostante il crescente malessere dell’ala riformista del partito, nonostante mezzo Pd le rimproveri che la scelta è sbagliata nel merito e nella tempistica.

Perché mettersi in scia di Landini e Conte?

Perché lasciare che sia la Cgil a dettare l’agenda delle politiche del lavoro anche al Pd?

Volendo parlare in termini politici, probabilmente è proprio la volontà di non essere scavalcata a sinistra da Giuseppe Conte che ha spinto la Segretaria alla decisione “solitaria”, senza cioè interpellare alcun organo di partito, lasciando per così dire “libertà di coscienza” ai Dem.

Ma io credo non vadano trascurati neanche elementi, come dire, umani.

Elly Schlein viene dal mondo della sinistra movimentista, quello dei centri sociali per capirci.

E l’abrogazione del Jobs Act era un punto qualificante della mozione con cui ha vinto le primarie per la Segreteria del Pd.

Non stupisce quindi la sua firma sulla richiesta di referendum; la sua è coerenza.

La palla rimane in mano a coloro che l’hanno eletta, non pensando che la “ragazza arrivata senza che nessuno se ne fosse accorto” avrebbe posto fine al Partito Democratico “riformista”, per iniziare una competizione ideologica a “chi è più estremista” con l’Avvocato del Popolo Giuseppe Conte.

Ma prendo atto che, alla fine, a parte i mugugni, si allineano tutti.

Umberto Baldo

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