Kalashnikov, un nome nella storia divenuto icona di terrore e di rivolta
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Umberto Baldo
C’è una sorta di sceneggiatura comune, una specie di copione nelle immagini che documentano le vittorie dei vincitori di qualsiasi rivolta o rivoluzione; la sfilata dei pick up Toyota Xilux, magari con una mitragliatrice piazzata sul pianale, e le facce felici dei combattenti tutti con il loro fucile in mano, o alzato al cielo in pose di giubilo.
Magari dei fuori strada Hilux (e Land Cruiser, sempre Toyota) che ormai fanno quasi parte del brand delle “Rivoluzioni”, ed il perché se lo chiedono da tempo i vertici della Casa giapponese, ne parleremo un’altra volta.
Perché oggi voglio soffermarmi su un fucile automatico la cui sagoma, il cui caricatore a banana, ormai da quasi 80 anni intona il “canto della morte”.
Un’arma diventata un’icona alla pari della Coca Cola o delle orecchie di Topolino, dal suono diverso da quello di ogni altro fucile: l’Ak 47, che forse vi è più noto come Kalashnikov, un nome che suona come una raffica.
Sì lo so bene che parlare di armi in questi anni in cui, sulla scia del pacifismo imperante, non si regalano più ai bambini il fucile, la pistola, l’arco, perché non si abituino alla violenza; ma cosa volete, io penso che sarebbe ipocrita non considerare che con le armi è stata costruita la storia dell’umanità.
Spesso la possibilità per un popolo di restare libero, così come per alcune nazioni quella di diventare imperi, è stata facilitata dalla capacità di fare e usare al meglio determinate armi.
Ci dimentichiamo che la temibilità dell’esercito romano era dovuta al cinico ed efficace uso che faceva della spada da combattimento, il gladium, e del giavellotto, il pilum.
Può sembrare banale (o crudele), ma le armi, e paradossalmente non quelle di distruzione di massa, hanno condizionato le sorti dei popoli.
Alcune più di altre.
Così mi riferisco ad esempio alla scimitarra che ha accompagnato gli arabi nella conquista del loro impero nel medioevo, o al fucile Winchester che è stata l’arma della “frontiera americana”.
Analogamente l’ “arco lungo inglese” in legno di tasso ha fatto la differenza negli scontri fra inglesi e francesi nella Guerra dei cent’anni, e fra il XIX ed il XX secolo gli stessi inglesi hanno potuto conservare un po’ più a lungo il loro impero anche grazie all’efficienza del fucile Enfield usato dall’esercito coloniale.
Fino ad arrivare alla seconda guerra mondiale sul suolo europeo, le cui sorti si sono in parte giocate anche nel sanguinoso confronto fra il fucile Mauser tedesco e il Garand americano.
Ma con l’Ak47 è tutta un’altra storia, in quanto è diventata globale prima della globalizzazione, e ha assunto nel tempo una sorta di valore “ideologico”, in quanto ha reso la lotta armata accessibile a qualsiasi latitudine, portafoglio ed età.
Non c’è dubbio che da subito assunse il sapore di “arma di sinistra”: l’arma di chi non aveva armi, la Volkswagen degli eserciti popolari, delle bande irregolari, e anche dei terroristi di ogni risma in tutti i continenti (tanto per dire la “famiglia Kalashnikov” costituisce circa il 75% di tutte le armi da fuoco presenti in Africa).
Piaccia o non ‘piaccia l’AK-47, è diventato“l’arma del popolo”, ed è stato ed è presente in tutti i conflitti africani, ed in quasi tutti i conflitti nel mondo, dal 1950 ad oggi.
Dal Vietnam alla Somalia, dalla Liberia al Sudan, passando per Afghanistan, Siria, Mali, Cecenia, Congo, Mozambico, Palestina, non c’è guerra che non abbia avuto l’Ak47 come protagonista assoluto.
Per anni il Kalashnikov è stato il simbolo dei guerriglieri comunisti contro gli imperialisti occidentali e in generale dei popoli che lottano per l’indipendenza; poi nel tempo è diventato anche il simbolo dello jihadismo, di Hamas ed Hezbollah, degli Houthi, e non solo.
E’ senza dubbio l’arma che ha fatto più morti nella storia dell’umanità, che ha reso la violenza “democratica”, simbolo di rivolta, icona di ogni guerra, strumento di massacri e genocidi, micidiale giocattolo di combattenti di ogni sorta, guerriglieri, trafficanti, jihadisti, malavitosi.
Il Kalashnikov è diventato l’elemento che distingue chi ha il potere da chi non ce l’ha, che regola la facoltà di uccidere ed il diritto di restare vivi, cambiando così il corso della storia.
Questo è l’Ak47, il fucile automatico d’assalto sovietico che dal 1947-1949, quando è entrato in produzione, vanta il triste primato di essere stato costruito in 75 milioni di esemplari “tipo”, ed in circa 25 milioni nelle sue varianti.
Tanto per avere un metro di confronto, il secondo fucile più prodotto al mondo nello stesso periodo, l’americano M16, contrapposto sui campi di battaglia di tutti i continenti a cominciare dal Vietnam, e concorrente su tutti i mercati delle armi, non ha raggiunto i 9 milioni di esemplari.
Perché questo successo? Anche se parlare di successo relativamente ad un’arma può sembrare blasfemo!
Innanzi tutto il prezzo; il costo medio di questo mitra è di 500 dollari, ma è possibile acquistarlo anche per meno, dipende dalla situazione civile e sociale in cui ci si trova.
La si può trovare, nell’immenso bazar globale delle armi, per poco più di 100 dollari, se usata; nei mercatini pakistani o yemeniti o congolesi, anche per meno.
Poi la sua semplicità, tanto da poter essere usata purtroppo anche dai bambini soldato, nonché la maneggevolezza, e la leggerezza, dato che pesa poco più di tre chili.
Per di più, cosa da non trascurare, è un fucile che “non si inceppa mai”, anche se sporco di fango.
Tanto che gira un aneddoto, forse apocrifo, che racconta che i soldati Usa nelle giungle del Sud est asiatico abbandonavano le loro delicate carabine M16 preferendo gli AK47 presi ai nemici caduti o catturati.
Comunque non era un’arma di precisione, come non sono mai le automatiche, ma di “terrore spruzzato a raffica” contro il nemico.
Non ci sarebbe stata la rivoluzione cubana né la vittoria del Vietnam del Nord e dei Vietcong nel Sud senza il Kalashnikov che, pensate, è raffigurato nella bandiera del Mozambico.
Chi fu il padre dell’Ak47?
Ci vorrebbe troppo spazio per raccontarvi la storia della vita di Mikhail Timofeyevich Kalashnikov, per cui se siete interessati vi consiglio di cercarla in Rete.
E’ una vicenda personale molto interessante, di un uomo con il petto corazzato da ogni possibile decorazione compresa nell’immenso catalogo della chincaglieria sovietica, promosso Generale senza avere mai comandato neppure una pattuglia, insignito di lauree ad honorem in ingegneria meccanica senza avere mai frequentato un’aula universitaria, ma passato alla storia per aver «creato un’arma per il popolo».
E’ pur vero però che chi l’avesse progettata e costruita in altri Paesi sarebbe divenuto miliardario, mentre Kalashnikov fu sempre retribuito con lo stipendio di un tecnico qualsiasi, certo via via aumentato con le promozioni e le onorificenze, ma pur sempre da impiegato statale.
Emblematico il fatto che né lui, né il Governo Sovietico, né l’Armata Rossa, pensarono mai di brevettare quest’arma, e proprio per questo fu copiata da molti Paesi.
Come curiosità riferisco che, solo a cominciare dal 2004, come Presidente onorario della britannica Kalashnikov Joint Stock Vodka Company, che produceva una vodka a 82 gradi in bottiglie a forma di AK-47, e con l’immagine del generale sull’etichetta, ha potuto trarre qualche vantaggio economico dalla sua “creatura”.
Non vorrei dare l’impressione di essere un estimatore dell’Ak47, e non dimentico quindi che questo fucile ha verosimilmente fatto più vittime, una alla volta, delle bombe atomiche sganciate dagli americani sul Giappone.
Eppure anche in questa fase storica, in cui le armi sono sempre più sofisticate, in cui i droni sembrano essere diventati i “signori della guerra” (secondo me perché permettono di uccidere senza vedere il nemico negli occhi), abbiamo visto ancora una volta i Kalashnikov alzati al cielo dai ribelli che nei giorni scorsi hanno abbattuto Assad.
Dal punto di vista industriale l’arma è andata in pensione nel 2011, quando l’Esercito Russo ha deciso di non averne più bisogno in quanto considerata superata (non gliel’hanno comunque detto al vecchio Mikhail Timofeyevich Kalashnikov, per il timore che potesse morirne).
Questo non vuol dire che questi mitra spariranno presto, perché si stima che ce ne siano ancora 100 milioni di esemplari in tutto il mondo.
Ed infatti ci sono posti al mondo in cui non c’è il cibo, e magari anche poca acqua, ma nei quali un Kalashikov non si nega a nessuno.
Umberto Baldo