La guerra degli agricoltori 2. E’ tempo di cambiare veramente!
Torno sul tema dell’agricoltura, degli operatori agricoli, dei prezzi dei prodotti, perché qualcuno di voi mi ha scritto facendomi notare aspetti che, per forza di cose, e di spazio, non avevo potuto trattare nel pezzo dell’altro giorno.
Anche in relazione a quello che scriverò di seguito, tenete presente che si tratta di semplici riflessioni sul tema, che non hanno certo la pretesa di risolvere alcunché, se non forse porre ulteriori domande.
Ma andiamo con ordine.
Qualcuno mi faceva notare che le attuali proteste degli agricoltori sono in parte strumentalizzate da forze politiche di destra in vista delle elezioni europee di giugno, al fine di mettere in contrapposizione il mondo agricolo con le politiche ambientali della Ue.
Non escludo che qualche Partito stia cavalcando la tigre sull’onda dei sondaggi, ma al riguardo ho già espresso la mia idea secondo cui l’Europa, nel perseguire lodevolmente il suo programma ecologico, lo sta facendo senza tenere conto del resto del mondo, in cui le regole o non ci sono o sono piuttosto blande, e poiché le regole alla fin fine comportano maggiori costi per chi produce, si finisce così per favorire i produttori di altri continenti (ed ecco perché diventano convenienti i prodotti cileni o sudafricani o marocchini).
In fondo un fenomeno analogo lo stiamo vedendo con le politiche green relative alle automobili ed ai mezzi di trasporto in genere.
E se poi si arriva a pagare gli agricoltori per non seminare, o addirittura per espiantare, credo ci sia più di qualcosa che non va.
Qualcun altro mi segnala che, nonostante i prezzi al supermercato di frutta e verdura ci sembrino eccessivamente alti, in realtà negli anni ’60 il bugdet alimentare di ogni famiglia era pari al 60% del reddito, mentre ora si è ridotto a meno del 20%, e questo calo qualcuno lo ha pagato; in particolare i produttori.
Questo discorso è annoso, e riguarda il problema della filiera alimentare, in cui ci sono forse troppi passaggi fra il produttore ed il consumatore, con i prezzi che inevitabilmente lievitano, perché ad ogni passaggio c’è chi deve ritagliarsi la propria fetta di guadagno.
E ampliando il discorso, ciò significa affrontare il problema che io, forse impropriamente, definisco della “finanziarizzazione” del settore primario.
Mi spiego meglio, per essere più chiaro.
Ho avuto la ventura di lavorare in banca agli albori del fenomeno della “Grande distribuzione”, e già allora mi resi conto che più che di un’attività commerciale vera e propria, si trattava prevalentemente di un’attività finanziaria; nel senso che la Grande distribuzione acquisiva i prodotti alimentari e li pagava a 90 giorni o anche più. Nel frattempo le derrate venivano vendute nei punti vendita in tempi rapidi; quindi si incassava al massimo in una quindicina di giorni, e si lucrava sul tempo restante fino al pagamento al produttore.
Il giochino immagino continui ancora oggi, magari più perfezionato, e così i contadini sono messi sotto pressione da Gruppi economici che speculano sui prezzi dei beni alimentari come se fossero prodotti finanziari, per non parlare dei giganti dell’agroindustria che controllano gran parte della produzione; dalle sementi ai pesticidi ai fertilizzanti.
Considerato che la Grande distribuzione organizzata rappresenta in Italia il canale di vendita di circa il 75% di tutto il cibo e le bevande consumati, si capisce bene che il margine di manovra a disposizione dei contadini è praticamente inesistente, e si arriva all’assurdo che i prezzi di vendita spesso non coprono neppure i costi di produzione (leggevo ieri di un produttore di latte che dichiarava di vendere il prodotto a meno di 50 centesimi al litro, con costi di produzione di 60 centesimi. Ma se andate al supermercato quel litro di latte fresco lo pagate quasi 2 euro!).
Fino ad ora il “sistema agricolo” è rimasto in piedi, pur con qualche fase di lotta, grazie ai sussidi della Ue (33% del bilancio comunitario), ma è evidente che non appena si parla di ridurre i sussidi, o di imporre restrizioni di tipo ambientale come il mettere a riposo il 4% dei propri campi, allora scoppia la rabbia, e ci troviamo con i trattori a bloccare le città, o a circondare i palazzi del potere, a Roma, a Parigi, a Berlino, come a Bruxelles.
Capite bene che, se tanto mi da tanto, sia pure con un ragionamento forzatamente grossolano, il cibo a buon mercato è solo un miraggio, e se per garantire prezzi accattivanti la grande distribuzione riduce all’osso gli incassi dei produttori, prima o dopo le rivolte sono assicurate.
E poiché, mi fa sempre osservare qualcuno, tenere basso il prezzo dei beni ha un costo, quel costo o lo paghiamo noi consumatori alla cassa del supermercato (prezzi sempre più alti), o lo paga l’ambiente consentendo l’immissione di pesticidi ed altre porcherie (ed alla fin fine la nostra salute), oppure lo pagano i produttori che hanno difficoltà a stare in piedi.
Certo che un sistema, come quello attuale, in cui il 50% del prezzo finale al consumo di un prodotto viene incassato dai Supermercati, e solo il 10% dai produttori, non credo abbia un futuro roseo.
Guardate che mi rendo conto che stiamo camminando sul ghiaccio, o almeno su un terreno scivoloso, ma credo sia utile mettere in chiaro che i nodi stanno progressivamente arrivando al pettine, e che non se ne può uscire se non ripensando completamente il sistema agricolo comunitario (prima di far entrare l’Ucraina ad esempio, o di dare il via libera all’Accordo con in Mercosur)).
Ma per fare questo sarebbe necessario che attorno ad un ipotetico tavolo si sedessero tutti i soggetti che entrano nella filiera alimentare; chi produce le derrate, gli intermediari, ed i venditori finali.
Tutti con la chiara volontà di risolvere il problema, se del caso rinunciando a qualche vantaggio alcuni, e magari anche a qualche ricco dividendo altri.
In tale processo una parte fondamentale dovrebbe ricoprirla l’Unione Europea, che giocoforza dovrebbe ripensare i criteri con cui in questi settant’anni ha dispensato i soldi dei contribuenti europei.
E quindi in quel di Bruxelles ci si dovrebbe chiedere se sia ancora giusto destinare il 30% del bilancio comunitario alla Pac (Politica Agricola Comune), con una politica di finanziamenti a pioggia e criteri di erogazione basati sulla quantità (l’80% dei finanziamenti va ancora solo al 20% degli imprenditori agricoli, premiando così l’agricoltura intensiva), invece che premiare la qualità, aiutando magari chi già produce il cibo che mangiamo seguendo criteri in linea con l’agroecologia, e così sostenendo anche i piccoli produttori, sempre più esposti, fra l’altro, ai cambiamenti climatici e ai disastri ambientali.
In altre parole credo sia tempo di mettere uno stop al fatto che in più di sessanta anni i Ministri dell’agricoltura europei hanno versato fiumi di denaro a favore delle produzioni più avvantaggiate, delle grandi e intensive proprietà, e delle società di intermediazione, dimenticando la riforma della Pac, le garanzie per maggiori sostegni ai giovani per il ricambio generazionale, gli aiuti ai produttori per contrastare l’egemonia dell’intermediazione e della grande distribuzione, il sostegno a chi ha deciso di investire più nella qualità che nella quantità, e nel restauro della natura.
A tal proposito credo andrebbe anche ripensata l’attribuzione della qualifica di “coltivatore diretto”; nel senso che chi possiede terra e la fa coltivare da terzi (facendo un altro mestiere), non dovrebbe poter contare sulle integrazioni della Ue, perché quella è normale attività di impresa.
Per essere più chiaro “coltivatore diretto” dovrebbe essere solo chi sale sul trattore o munge le vacche ogni mattina (con relativi controlli).
Nel mio pezzo di due giorni fa chiudevo i miei ragionamenti invitando gli agricoltori a non tirare troppo la corda con proteste inammissibili, ma è bene che tutti si rendano conto che le mele, le arance, le verze, e tutti i frutti della terra, non nascono spontaneamente, ma sono il frutto del lavoro (non in giacca e cravatta, seduti dietro una scrivania con l’aria condizionata) di chi la terra la lavora ogni giorno, sabato, domeniche, e feste comandate comprese.
Perché di una cosa dobbiamo essere certi; senza i coltivatori gli scaffali dei supermercati resterebbero vuoti, e noi resteremmo senza mangiare.