22 Marzo 2024 - 9.55

La guerra di Gaza infiamma le nostre Università

Chi come me ha vissuto il ’68 al Liceo, con tutto quello che ne è seguito negli anni successivi, non viene certamente turbato dalle manifestazioni degli studenti di questi giorni.

Che a voler essere sinceri sono oggettivamente all’acqua di rose rispetto ai grandi cortei che allora invadevano le città, bloccando tutto, e che finivano regolarmente in scontri con i ragazzi della “Celere”, fra molotov, fumogeni, macerie, incendi.

Si manifestava per tutto.  Allora, ogni occasione era buona per scendere in piazza contro il “regime democristiano” ed i suoi “burattinai americani”.

Senza dimenticare la politica internazionale, al grido di “Via gli Yankees dal Vietnam”, “Vamos a defender la revolucion cubana”, e altri innumerevoli slogan che in realtà assumevano il peso di vere e proprie parole d’ordine.

Certo quei moti furono anche la causa di una generazione perduta che bruciò gli anni migliori nella “lotta armata”, e gli echi di quegli che divennero “gli anni di piombo” sono ancora vivi a distanza di decenni.

Come dicevo all’inizio, non mi stupisce che l’Università venga coinvolta nelle vicende del mondo, e che i giovani vogliano fare sentire la propria voce. 

Certo ci sarebbe molto da dire sulla differente preparazione culturale di base, ed io penso anche politica, delle generazioni degli anni intorno al ’68 rispetto a quella degli studenti di oggi (almeno a sentire i professori universitari costretti ad organizzare corsi di lingua italiana alle matricole), ma questo è un altro discorso.

Perché allora vi parlo del clima attuale delle nostre Università?

Partiamo subito col dire che non è un fenomeno solo italiano, anche perché noi siamo solitamente lenti a partire, e ci facciamo condizionare dalle spinte che di norma ci arrivano dall’America.

E’ un fatto che, dal giorno dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, in alcune delle più prestigiose Università statunitensi, sia pubbliche che private, diversi gruppi studenteschi hanno organizzato manifestazioni di solidarietà per le vittime palestinesi, da una parte, e di protesta contro le politiche di Israele, dall’altra.

Seguendo il pensiero Andreottiano secondo cui “a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”, leggendo qualche giorno fa la notizia secondo cui da uno studio di 53 pagine della NCRI (una delle maggiori agenzie di analisi dati degli Usa) risulterebbe che, dal 2014 al 2019, nelle casse di 200 università statunitensi sarebbero confluiti 13 miliardi di dollari non dichiarati al ministero dell’Istruzione, mi sono chiesto “Cui prodest?”.     

I principali donatori sarebbero alcuni Stati stranieri, fra cui il Qatar (2,7 miliardi), la Cina (1,2 miliardi), l’Arabia Saudita (1 miliardo), gli Emirati Arabi (circa mezzo miliardo) e numerosi altri Stati. Inutile dire che sono rimasto piuttosto stupito da quanto sarebbero state consistenti le donazioni dalle autocrazie mediorientali.

Secondo questo report non staremmo parlando dell’ “Università dea Baucàra”, bensì delle più grandi e prestigiose Università del Nord Est degli Usa: Harward, Yale, Cornwell, Carnegie Mellon, guarda caso proprio quegli atenei che si sono distinti per l’imponenza e l’aggressività delle manifestazioni anti Israele.

Preciso anti Israele perché è ora di finirla di chiamarle “pro Palestina”.  C’è un limite al ridicolo, soprattutto se la Palestina cui si auspica è ”dal Giordano al mare”, il che comporterebbe la cancellazione fisica dello Stato ebraico.

Che ci sia una correlazione fra quelle donazioni e l’anti-ebraismo militante non lo sapremo mai con certezza, ma capite bene che chi ha tirato fuori i soldi li da indirizzati non a caso verso quelle prestigiose Università, che da sempre sono la fucina della classe dirigente Usa; quei ragazzi che fra qualche anno andranno a sedersi nelle poltrone che contano nel mondo della politica, dell’informazione e dell’alta cultura.

Oserei dire che, se la lettura è esatta, potrebbe trattarsi di “un investimento sul futuro”.

E da noi?

Sicuramente gli altri Stati non sono dovuti intervenire finanziariamente, perché nel BelPaese antioccidentalismo, filoislamismo ed antisemitismo sono ben presenti in ampi settori della nostra società (politica, sindacato, anche la Chiesa), per cui indottrinare quattro ragazzotti, dotati di basi culturali piuttosto scarse, e spingerli a protestare con veemenza, non deve essere stato poi così difficile. 

E così abbiamo visto episodi degni del famigerato ventennio fascista, in cui a un giornalista di origine ebraica come David Parenzo è stato impedito da un gruppo “pro-Palestina”  di parlare ad un evento all’Università La Sapienza, in quanto “sionista”. 

Ma la stessa sorte è poi toccata all’Università  Federico II di Napoli, dove il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, è stato contestato da alcuni collettivi universitari e dai centri sociali con l’accusa di “essere un sionista”, con conseguente annullamento del confronto sul suo libro “Mediterraneo conteso”.

Non voglio neppure perdermi a fare l’elenco delle Università italiche dove più forti si sono sentite le pressioni di questi gruppi “Pro Palestina”; buon ultimo è l’Ateneo di Torino, dove il Senato accademico ha votato in maggioranza una mozione che ritiene non opportuna la collaborazione con le Istituzioni universitarie israeliane, visto il protrarsi della guerra a Gaza.

Ma il punto su cui voglio soffermarmi è proprio questo.

Questi movimenti studenteschi (o coloro che li ispirano senza esporsi direttamente) stanno velocemente spostando l’obiettivo dalla guerra in corso nella Striscia di Gaza, quindi da un episodio bellico sicuramente deprecabile, ad un livello  politico più alto, accendendo un dibattito in seno agli ambienti accademici in cui il terreno di scontro diventa ora la collaborazione scientifica e culturale con Israele, colpevole secondo i collettivi studenteschi ed un certo numero di maitre à penser italiani, di uno spargimento di sangue di civili, con il relativo corollario di accuse di genocidio.

Su questo punto io credo non sia possibile assumere posizioni neutre o addirittura pilatesche.

L’immagine che ho sempre avuto dell’Università come Istituzione, è quello di un luogo di “Alta cultura” dove devono trovare spazio tutte le manifestazioni del pensiero, da qualunque parte provengano, indipendentemente dalla situazione geo politica del momento. 

In altre parole occorre preservare una zona franca, un terreno magari non neutrale, ma nemmeno belligerante, dove le diverse culture e le diverse storie possano continuare a comunicare mantenendo un linguaggio comune, pro-futuro. 

Capisco che in certi momenti, oltre tutto con certe pressioni, non sia facile, ma se cediamo su questo punto allora possiamo chiudere le Università ed aprire scuole tipo le “madrasse” coraniche.

In conclusione,  mi vanno benissimo le contestazioni; un po’ meno bene in verità le pressioni violente sui Senati accademici per troncare ogni rapporto con gli Atenei israeliani, anche perché dissento dal fatto che si punti sempre il dito accusatore sugli “Ebrei”, e si ometta sempre anche solo di accennare al 7 ottobre, e ad Hamas che ha acceso la miccia in Medio Oriente.

Ma va tutto bene, ammesso e non concesso che potesse servire a far finire il massacro in atto a Gaza.

Ma pretenderei, per correttezza ed onestà intellettuale, che le stesse richieste venissero portate avanti nei confronti delle Università cinesi, visto il genocidio in atto da decenni contro gli Uiguri e altre minoranze, contro le Università turche visto il genocidio contro i curdi, contro le Università  del Sudan e del Congo, contro le Università del Myanmar e della Corea del Nord, contro le Università Iraniane visto che lì si impiccano le ragazze senza velo; solo per fare qualche esempio (e credetemi che ce ne sarebbero molti altri; basta sfogliare un atlante).

Diversamente, concentrare tutti gli strali contro Israele al grido di “Palestina libera” nasconde, ripeto, solo antisemitismo, filoislamismo e antioccidentalismo.

E questi ragazzi, nonostante la vantata patina “progressista”, finiscono loro malgrado per essere dei fascisti, nel pensiero e nei metodi.

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